Nelle ultime settimane sui social, in particolare Instagram e Tik Tok, è tutto un proliferare di donne che hanno deciso di condividere la propria esperienza del parto e della maternità. In modo particolare i loro racconti sono concentrati sui momenti immediatamente successivi alla nascita del bambino e la conseguente richiesta di presenza e vigilanza da parte della madre. In sostanza tutte lamentano una totale assenza da parte delle strutture sanitarie che, come se partorire fosse una passeggiata di salute o un normale pomeriggio con amiche, “stimolano” fin troppo le pazienti al ruolo di madre.
Nella pratica vuol dire che, dopo una media di 12/17 ore di travaglio, si è costrette, attraverso pressioni psicologiche diverse, a fare sfoggio delle ultime energie residue per prendersi cura del proprio bambino. In caso contrario si viene spesso tacciate e, nemmeno tanto velatamente, di essere delle pessime madri. Il che, a poche ore dal parto e con gli equilibri psicofisici completamente sconvolti, è un atto di crudeltà inaudita.
Ovviamente tutte queste confessioni sono frutto inevitabile della tragedia accaduta presso l’Ospedale Sandro Pertini di Roma nella notte tra il 7 e l’8 gennaio di quest’anno. In sostanza una donna è stata lasciata da sola ad affrontare la propria naturale stanchezza, occupandosi del suo bambino senza che nessuno si sia curato di appurare quanto fosse esausta. A pagare, purtroppo, è stato il piccolo e, inevitabilmente, anche la madre che, per il resto della propria vita, dovrà confrontarsi con questo evento.
Perché ora?
Bel lungi dal colpevolizzarla di un fatto al di sopra del suo controllo, mi sorge spontanea una domanda: il silenzio di queste donne che, in una delle fasi più delicate della loro esistenza, si sono trovate tutte a confrontarsi con un atteggiamento superficiale, strafottente e spesso supponente rispetto ad una condizione profondamente intima, non poteva essere rotto prima? Cosa le ha portate a tacere per tutto questo tempo? La risposta è da ricercare all’interno di una consuetudine sociale che abbina al concetto stesso di maternità dei luoghi comuni cui le donne, nel corso del tempo, si sono adeguate. In caso contrario, il giudizio con la lettera scarlatta di “cattiva madre” è sempre stato in agguato dietro l’angolo come la più grande infamia da attribuire all’universo femminile.
Maternità, il ricatto sociale della pessima madre
Ed è proprio su questa sorta di ricatto morale e culturale che mi vorrei soffermare per un approfondimento del rapporto tra le donne, la maternità e il silenzio che l’accompagna partendo da una rivelazione: approcciarsi alla nascita non è sempre un evento psicologicamente naturale. Almeno non per tutte. Perché, a dispetto di quanto possa dire la biologia, essere strutturate per poter dare alla luce un bambino non sottintende una predisposizione immediata e universalmente condivisa da ogni singolo individuo femminile. Sembra assurdo doverlo ancora precisare ma, di fatto, la maternità non è un obbligo sociale o genetico ma, esclusivamente, una libera scelta.
Solo in quel momento tutto ciò che accade successivamente, dalle difficoltà della gestazione allo scombussolamento ormonale fino alla giusta e naturale paura del parto può essere affrontato con consapevolezza ed una sorta di grata attesa. Questo non vuol dire, però, che una futura madre non possa essere attraversata da dubbi, pentimenti e momenti di sconforto. Stati d’animo che sono impossibili da esprimere apertamente perché la società incastona, ancora oggi, la maternità e di conseguenza la donna, in un assurdo e innaturale stato di felicità perenne.
Essere madri è una gioia, un bambino è una benedizione, questi sono i messaggi che arrivano, e per questo motivo si dovrebbe gorgheggiare come una novella Biancaneve incinta. E se per caso questo non accade il giudizio sociale si abbatte con una ferocia che non ha motivo. Perché, di fatto, il mondo esterno ci dice che, se non siamo felici a prescindere da tutto, non siamo delle buone madri e la nostra normalità assume improvvisamente la forma di un abominio, di una condizione dell’animo anormale.
Conseguenza di tutto questo, dunque, è il silenzio. Il primo e di certo non l’ultimo che mette a tacere tutto con uno sforzo immane. Il fine è apparire come le altre, per dimostrare di essere assolutamente normale come tutti si aspettano. Ma chi sono, poi, queste altre se non delle donne che, probabilmente, stanno vivendo la stessa situazione emotiva? Non sarebbe più giusto e sano, invece, poter condividere i propri dubbi ed i momenti di paura, fisici e psicologici? Solo così è possibile continuare a potersi definire degli esseri umani e non solamente delle madri, dando a questo termine un’assonanza mitologica di infallibilità che non ha.
Maternità, madre, donna o Wonder Woman?
Io sono figlia di una donna che, per i primi mesi della mia vita, ha pianto praticamente tutti i giorni. Il motivo? Era giovane, lasciata sola con una neonata non collaborativa, lontana da sua madre, dalla rete sociale che la rendeva più sicura e, probabilmente, nemmeno tanto sicura di sentirsi una mamma. E’ stata una pessima madre per le paure ed i dubbi che l’hanno scossa? Assolutamente no. Anzi, è stata ed è splendida. Ma, a distanza di molti anni, quei ricordi non sono svaniti dalla sua mente. Anzi, rappresentano ancora una difficoltà quasi insormontabile, vissuti con un senso di colpa latente perché non poteva e non si sentiva felice. Nonostante fosse una madre. O, probabilmente proprio per quello.
Un insieme di emozioni, dunque, che non ha esternato perché, al di sopra di tutto, ha dovuto mostrare una resistenza coriacea che, a detta di molti, la donna dovrebbe sentirsi scorrere nelle vene non appena diventa madre. Ma da quando la nostra struttura biologica ci ha destinate anche ad un futuro con super poteri? Un altro racconto epico legato al mondo della maternità vuole le madri portatrici sane di una resistenza instancabile, capaci di non dormire per mesi e, il mattino successivo, affrontare tutto con la freschezza che solo la nuova condizione può dare. Perché essere madre vuol dire essere indistruttibili. Una sorta di immunità che nasce dal fantomatico istinto materno.
Bene sarebbe il caso di sfatare tutto questo e riportare la discussione ad una visione sicuramente più concreta e realistica. Sarebbe anche il caso di ammettere la propria condizione di fragilità ignorando beatamente il giudizio di chi ha stabilito il decalogo alla base della maternità perfetta. E, una volta riguadagnato il diritto alle paure, incertezze e apprensioni nei confronti del futuro, reclamare una struttura sociale e sanitaria che non si permetta d’intromettersi su come vogliamo o troviamo più agevole e naturale vivere il concetto stesso di maternità. Perché se è vero che per crescere un bambino serve un villaggio, con quanto accaduto abbiamo solo dimostrato il fallimento di un sistema che, nel seguire affannosamente la realizzazione di un modello perfetto onestamente inesistente, ha finito proprio col mettere in pericolo gli elementi più preziosi.
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