Disclaimer importante: questo post nacque qualche ora dopo la pubblicazione della notizia della morte di Dolores O’Riordan. Evento tragico che mi ha spinta a viaggiare indietro nel tempo, verso l’adolescenza. Ho deciso di rinfrescare il post perché si sta tornando a parlare con insistenza degli anni ’90. E ti invito a seguire la divertente sitcom di Netflix, That ’90s Show, che ho recensito per Screenworld (trovi la recensione qui). Dunque, me li ricordo bene gli anni ’90. Ci stavo ammollo.
Non ero felice neanche un po’. Forse è per questo che non ci ripenso volentieri, ma so anche che non sarei mai diventata colei che sono adesso senza i tormenti vissuti all’epoca. Ne avrei fatto volentieri a meno, ma posso dire di averla sfangata, via.
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Anni ’90, l’inizio dell’inizio
Sono nata nel 1975 e questo vuol dire aver vissuto con scioltezza i favolosi eighties ed essere fiorita (tra mille insidie) nei nineties.
Ho compiuto 15 anni il 22 ottobre del 1990. Qualche mese dopo mi sarei goduta le Notti Magiche (e pure quelle… te le raccomando) assieme ad una lunga serie di delusioni amorose di cui taccio per rispetto.
Poi è arrivata la crisi nera dei 16 anni, l’esame di maturità a 17, la scelta dell’università a 19. Più passava il tempo più mi sembrava di non crescere, di non possedere alcuna qualità speciale. Certo studiavo con profitto, ero la prima della classe ed ero simpatica alle insegnanti, ma quella non mi sembrava la vera Francesca. La vera Francesca era una ribelle. O meglio, una ragazzina che sognava di essere una ribelle e finiva sempre per tornare all’ombra gigantesca della sua mamma.
Anni ’90, tra Brenda e l’abisso
A 18 anni vidi il video di Dreams dei Cranberries e ne rimasi sconvolta. Nella prima delle tre versioni, Dolores liberava un uomo imprigionato nel fango. Quell’immagine mi affascinava in una maniera che non sapevo spiegarmi.
Continuavo a interrogarmi sulle mie emozioni, su come potesse essere possibile trasformarle in qualcosa di duraturo, che potesse essere condiviso. Credo di aver scelto Lettere e Filosofia con indirizzo in Dams proprio per questo. Perché pretendevo che i miei tormenti interiori fossero amati da tutti.
Volevo disperatamente avere degli amici ed essere accettata per quella che ero. Il cappotto rosso di velluto della povera Dolores mi sembrava stupendo. Mi dicevo, ma allora si può essere strani, si può andare in giro come uno vuole senza passare per matta. Certo che si poteva.
Ma senza una grande identità non sarei andata da nessuna parte e quella parte lucente di me ancora non era venuta completamente fuori.
Intanto ero in mezzo a un labirinto. Da un lato, il bisogno di essere bella come Brenda e Kelly, coi capelli perfetti e i jeans precisi. Dall’altro, il desiderio di liberare l’artista ruggente che si nascondeva dentro di me e che ogni giorno mi spediva parole nuove e nuove sensazioni. Se mi avesse anche spedito anche un manuale d’istruzioni gliene sarei stata immensamente grata.
Anni ’90, Cornflake Girls e Raisin Girls
Mi aiutò in qualche modo Tori Amos che folleggiava nelle classifiche europee con Cornflake Girl. Una canzone bella, ma complessa, piena di immagini e significati profondi, che alludeva ad un mondo femminino pieno di sfumature. Le ragazze cornflake erano quelle di cui non ti saresti dovuta fidare, che ti avrebbero mollato sul più bello. Quelle uvetta (le raisin girls) invece erano le donne morbide e dolci.
Ecco, solo l’idea di poter fare anche io delle iperboli del genere mi esaltava. E capii che forse dentro di me quel caos avrebbe potuto portarmi da qualche parte. Lo conservai. Fino a quando non decisi che era arrivato il momento di cambiare.
Arrivò il 2000.
Leggi la recensione di That ’90’s Show su Screenworld
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