160 minuti di estasi e tormento. Quasi la vivisezione di un mito, di una donna (vera) completamente assorbita dalla sua immagine artistica. Blonde è un vero tour de force che però mi sento di consigliarti. Al termine della visione non ne saprai di più di Marilyn. Per quello ci sono i documentari (alcuni molto belli) che puoi trovare sempre su Netflix.
Anzi, sarai forse presa da mille domande, tutte senza risposta. Prima fra tutte, chi ha amato davvero Marilyn? Chi si è preso cura davvero di quella ragazzina, Norma Jeane quasi uccisa dalla madre. Dal libro omonimo di Joyce Carol Oates al film di Andrew Dominik, Marilyn Monroe resta un enigma.
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Ana de Armas è Marilyn Monroe in Blonde
Blonde, una donna allo specchio
Il film di Dominik racconta l’ascesa all’empireo di Hollywood di Norma Jeane Baker, ragazza cresciuta senza la madre dopo che quest’ultima è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico per aver tentato di uccidere la figlia. Bella, bellissima, viene abusata da produttori e registi, diventa famosa e con la fama diventa più stridente il contrasto tra quell’immagine patinata, perfetta e sensuale, e un’identità umana fragile, bisognosa di attenzioni. Marilyn viene bramata dal pubblico maschile, ma non compresa. Anche i rapporti con gli uomini più importanti della sua vita (Joe Di Maggio, Arthur Miller, i due Kennedy) sono nella sostanza deludenti.
Un collage di emozioni
Per raccontare la vita di Marilyn (o parte della sua vita) Dominik sceglie uno stile barocco, ricco, persino sovrabbondante. Un collage composito in cui le figure ritagliate vengono incollate in un ambiente sempre ostile. Non c’è tregua, tra immagini a colori e bianco nero, mescolanza di passato e presente, di vero e falso. Il risultato può essere a tratti straniante, ma forse questo è l’unico film possibile sulla Monroe. Un’opera che mostra i contrasti di un’esistenza al limite senza ricomporli, restituendo in immagini quella frattura nel cuore e nella testa di Marilyn.
Tutti si chiamano Daddy
Chi era Marilyn? Marilyn era colta, intelligente, umile. Eppure, nessuno la riteneva all’altezza. Anzi, la consideravano una “bionda scema”. Quanto lei stessa si sia adagiata su questa immagine senza contrastarla davvero è difficile dirlo. E forse non spetta neanche a noi.
Di sicuro, la sua era un’identità frammentata, spezzata, come dimostra la bellissima scena dello specchio in cui lei, in lacrime e disperata dopo aver perso il figlio concepito Arthur Miller, evoca l’arrivo di Marilyn. Dopo qualche colpo di pennello del truccatore, Mrs. Monroe si palesa, ridente e luminosa.
Mai amata e forse mai capace di amare, persa nella disperazione della dipendenza affettiva, il pattern delle sue relazioni affettive era sempre lo stesso: un inizio paradisiaco, segnato da una fine dolorosa.
Il sesso è un elemento chiave del racconto ed è sempre rappresentato come dominio dell’uomo potente sulla donna debole, non come realizzazione di un desiderio sano. Non c’è gioia nella carnalità, ma solo esitazione, paura. La sequenza con il presidente Kennedy è emblematica. Marilyn si piega a una voglia del suo uomo, forse per amore, ma ciò che ottiene è solo una delusione terribile.
Nel film di Dominik Marilyn non è oggetto del desiderio, ma oggetto e basta. Fatto dagli uomini, per gli uomini, sfruttando una debolezza strutturale nata nel legame con la madre. Primo e più importante essere umano deludente della sua vita, assieme al fantasmatico padre. Che torna ossessivamente in tutte le relazioni con compagni che chiama Daddy.
Cosa mi è piaciuto
Chi detesta il film (e sono in tantissimi) lo considera un atto di lesa maestà nei confronti di Marilyn. Forse è qui il senso di tutto: la nostra percezione del mito, che non ammette sporcizia, dolore. Ma Marilyn era fragile e veder rappresentata la sua dimensione umana la rende solo più amabile.
Onestamente, credo che Andrew Dominik abbia fatto un piccolo miracolo, trasformando il mito Marilyn in un racconto cinematografico originale, disturbante. Non dimentichiamo che è l’adattamento di un libro, quello di Joyce Carol Oates, di per sé complesso e stratificato.
Il bello è che Marilyn è lì, in mezzo alle pagine della Oates e nelle immagini di Dominik. Presente e sfuggente al tempo stesso. Non si poteva chiedere di più.
La stessa Oates parla su Twitter in termini entusiastici del film
“Penso che si tratti di una splendida opera d’arte cinematografica, ovviamente non per tutti. Trovo sorprendente che in un’epoca post MeToo, la rappresentazione esplicita dei predatori sessuali di Hollywood venga considerata sfruttamento. Quel che è certo, è che Andrew Dominik voleva raccontare la storia di Norma Jeane con sincerità”.
I think it was/is a brilliant work of cinematic art obviously not for everyone. surprising that in a post#MeToo era the stark exposure of sexual predation in Hollywood has been interpreted as “exploitation.” surely Andrew Dominik meant to tell Norma Jeane’s story sincerely. https://t.co/YCehGfskds
— Joyce Carol Oates (@JoyceCarolOates) September 30, 2022
Ana de Armas è straordinaria, punto. E non perché somigli alla Monroe, ma perché continuiamo a intravederla tra le pieghe di questo personaggio mastodontico.
Cosa non mi è piaciuto
Non mi è piaciuta la sequenza del dialogo tra lei e il feto che porta in grembo, che l’accusa di aver ucciso altri bambini prima di lui. Capisco che faccia tutto parte di una dimensione “psichiatrica” del personaggio Marilyn, ma credo che una cosa del genere avrebbe meritato un trattamento diverso, più maturo. Che Marilyn fosse in balia degli eventi, incapace di decidere sul suo corpo, non è tema di poco conto. Ebbene, viene accennato, ma mai del tutto sviscerato. Solo cristallizzato, appunto, in un paio di scene non perfettamente centrate.
Non ho amato la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, sempre e costantemente presente. Così tanto da impedire quei momenti di pausa essenziali per elaborare la storia che stiamo vedendo.
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