Di tutti i film usciti in sala in questo fine settimana ho scelto a colpo sicuro il Maigret di Patrice Leconte per una serie di motivi. Il primo, la mia fascinazione per i polizieschi, le indagini, la scoperta dei colpevoli (e delle loro storie). Il secondo, Parigi, una città che per me rappresenta ancora oggi tantissimo e dove tornerò prima possibile. Il terzo, Gérard Depardieu, un attore che con la sua fisicità imponente incarna alla perfezione la stanchezza di un eroe come il commissario Maigret, nato dalla penna fertile di Georges Simenon e portato sul grande e piccolo schermo da altri attori meravigliosi come Jean Gabin e Gino Cervi.
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Una scena di Maigret
Maigret, la depressione dell’eroe
In questo film, liberamente ispirato a Maigret e la giovane morta, l’investigatore è alle prese con una grave crisi personale. È stanco, anzi di più: è depresso. Non sente più gioia nel suo lavoro e neanche nel cibo che tanto ama. Si limita ad alimentarsi per stare in piedi. C’è una motivazione fisica a tutto questo? No. Il medico gli dice anzi che i suoi polmoni di fumatore di pipa sono puliti come quelli di un bambino. Allora la ragione del malessere è altrove. In quel mestiere che gli ha mostrato il lato brutto degli esseri umani, le loro debolezze (che non giudica mai), le passioni devastanti. Quando in una notte qualunque si trova a dover risolvere l’omicidio di una giovane donna, Maigret riapre una ferita mai sanata.
Gioco di specchi
Te lo dico subito. Il caso di omicidio si risolve facilmente. A noi spettatori è concesso quasi subito di capire il nome del colpevole e la natura delle sue azioni, perciò è evidente che non fosse questo l’obiettivo principale del regista. Quanto portarci tra le pieghe della vita di un uomo fondamentalmente buono (anche se le categorie etiche risultano striminzite in certi casi) che si confronta con un dolore antico: la morte della figlia. Dolore che lo stesso Simenon ha vissuto sulla sua pelle quando l’amata Marie-Jo si tolse la vita, dopo anni di sofferenza psichiatrica. Sovrastata da un rapporto morboso ed eccessivo col padre. Talmente amato da averlo sposato (per gioco) da bambina.
Leconte prende tutto questo e lo dissemina in un film dolente e grigio, dove i colori che brillano sono pochi e tutto sembra avvolto da una bruma fredda. Per le strade di Parigi passeggiano tante donne come la povera protagonista, arrivate nella Ville Lumière per fare fortuna e finite chissà dove e chissà con chi. In questo teatro pieno d’ombre, le pedine si muovono quasi come fantasmi.
La verità è un fantasma
C’è una sequenza bellissima nel film, quella in cui Maigret per svelare finalmente l’omicidio allestisce una messa in scena degna di Shakespeare e Hitchcock, in cui l’agnizione finale avviene attraverso il corpo/fantasma di un’altra giovane donna (Jade Labaste). Una ragazza che aiuta Maigret sospinta da un affetto filiale.
E così, tra mogli premurose, ragazze a caccia di realizzazione (e di calze di seta), madri mostruose e padri che hanno perduto ciò che di più prezioso avevano, Maigret è un testimone silenzioso e pacato, che dà un nome e una sepoltura amorevole alle vittime della violenza. E così facendo ricostruisce la loro storia e la riconsegna a noi.
Da vedere assolutamente.
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