Alcuni giorni fa, su Facebook, mi sono imbattuta in una richiesta particolare rivolta ad un gruppo tutto al femminile. Nello specifico si chiedevano chiarimenti e informazioni sull’eventuale esistenza di un sostegno emotivo per zitelle. Si, avete capito bene, ho detto zitelle.
Devo essere onesta, l’utilizzo di questo termine ha colpito le mie orecchie ed ha messo in moto la mente, producendo una serie di reazioni a catena. La prima è stata di stupore ed anche di sottile ironia.
Il termine zitella, infatti, già da qualche decennio risulta desueto e cacofonico, sostituito dal più modaiolo corrispettivo inglese single. Dopo l’iniziale reazione, però, ho capito che non c’era proprio nulla per cui sorridere perché dietro alla parola zitella e alle difficoltà emotive che ne seguono c’è un mondo di notevoli proporzioni di cui bisogna tener conto.
Foto di Priscilla Du Preez su Unsplash
Zitelle, occhio alle parole
Per provare a capire iniziamo proprio dal termine. Nel corso degli anni, generazioni di donne hanno rifiutato la definizione di “zitella” perché produceva una risonanza negativa che parlava di solitudine ed incapacità di soddisfare le aspettative sociali o famigliari. Oggi, però, il mondo femminile dovrebbe essersi affrancato dai cosi detti modelli imposti e la vita di coppia, come quella matrimoniale, dovrebbe essere una scelta e non una meta prestabilita e necessaria.
Dovrebbe, ma forse non è sempre cosi. La richiesta di un sostegno emotivo per zitelle, infatti, sottintende che, pur avendo conquistato la libertà sessuale, probabilmente non abbiamo ancora acquisito quella emotiva e sentimentale, soffrendo il nostro giudizio e quello degli altri rispetto ad una vita personale non coniugata al plurale. Ma cosa vuol dire essere una zitella oggi?
Zitelle 2.0
L’uso assiduo dei social e un’abitudine all’esternazione compulsiva del privato, dal mio punto di vista, dovrebbero essere gestiti con un sano disinteresse nei confronti della valutazione da parte di terzi riguardo le nostre scelte. In sostanza, sarebbe come affermare: “Questa è la mia vita. Se non siete d’accordo non me ne faccio un problema“.
La realtà dei fatti, però, è completamente diversa. Facebook e company, infatti, hanno solamente aggiunto un altro sguardo indagatore e crudele sulle nostre esistenze. Un occhio che è critico e giudicante quanto quello di una famiglia o di un ristretto gruppo sociale. Lo svantaggio è che, nel caso dei social, la platea che ci osserva è ben più vasta. Oltre a questo, poi, offre un costante e perenne metro di paragone con le altrui scelte andando ad esaltare, in modo perverso, sempre i limiti delle nostre.
Insomma, abbiamo lottato e lottiamo per il diritto di gestire il corpo, per acquisire il piacere di un orgasmo e la libertà di scegliere la vita sessuale che desideriamo, ma il peso del giudizio non smette di farsi sentire. Che venga dalla famiglia, dal gruppo di amici o dai social, spesso la valutazione della “condizione” di una zitella è impietosa e prende forza dal far parte di un gruppo, quello degli accoppiati, riconosciuto e riconoscibile socialmente come sinonimo di appagamento e completezza. Ma siamo poi sicuri che questa regola valga per tutti?
Le domande da porsi
Ammetto di essere stata fortunata. Come ho accennato più di una volta, provengo da una famiglia di donne particolari. Per mia nonna, soprattutto, l’indipendenza e la soddisfazione personale sono sempre stati gli elementi fondamentali su cui fondare la propria esistenza. Questo vuol dire che, in casa mia, la parola zitella non è mai riecheggiata. Tanto meno sono stati temuti gli effetti collaterali di una vita in assenza di coniuge o fidanzato. Il matrimonio era sul tavolo delle possibilità alla stregua di altre scelte come astronauta, ballerina, fisica nucleare o giornalista. Per non parlare del fatto che una direzione non escludeva l’altra.
Per le mie donne fondamentale, invece, è stato imparare a porsi delle domande. Mi riferisco a quelle un po’ scomode ma utili per comprendere cosa ci rende consapevoli e rispettose di noi stesse. Perché a dispetto del ragionamento matematico, nell’ambito affettivo e sentimentale non esiste un teorema che può essere dimostrato applicando sempre le stesse regole per tutti. È per questo che il giudizio esterno non dovrebbe avere nessun tipo di peso sull’eventuale decisione. Conta solo il nostro punto di vista.
Zitelle: quando il giudice siamo noi
Cosa fare, però, quando il giudizio più impietoso viene proprio da noi stesse? Qui la strada per liberarsi dalle difficoltà emotive che derivano dalla condizione di zitella diventa più impervia e, probabilmente, necessita realmente di un intervento professionale. Arrivare a comprendere che la nostra definizione come individui non dipende dalla presenza di un partner è più facile a dirsi che a farsi.
Interpretare l’amore, poi, come un plus rispetto a ciò che già abbiamo è non come una sorta di Santo Graal, intorno alla cui ricerca far girare l’intera esistenza, è ancora più difficoltoso. Perché, diciamolo, essere da soli non sempre è semplice. Ma credete veramente che rinunciare alla propria natura pur di camminare accompagnate lo sia altrettanto? Probabilmente questa è la domanda più importante cui dare una risposta. Pensiamoci tutte, zitelle e non.
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