Quando si parla del rapporto tra lavoro e donne alcune statistiche sanno essere impietose. Chi mi conosce sa quanto sia poco attratta dai numeri e scarsamente li comprenda. Nonostante questo, però, negli ultimi giorni almeno una cifra ha attirato la mia attenzione, stimolando alcune riflessioni che vorrei condividere. Si tratta di un numero allarmante soprattutto per il mondo femminile che, anche a causa della pandemia, ha registrato un aumento esponenziale del tasso di disoccupazione.
Alcuni giorni fa, infatti, l’ISTAT ha reso pubblico un dato terrificante, secondo cui, nel mese di dicembre del 2020 ben 99mila donne hanno perso il proprio posto di lavoro o sono risultate inattive. Questo vuol dire che gli effetti collaterali economici della pandemia si sono fatti sentire soprattutto su una categoria che, dal punto di vista contrattuale, da sempre risulta essere più debole e facilmente attaccabile. Che sia chiaro, io non tendo ad indulgere nel vittimismo e non credo nemmeno nell’applicazione delle quote rosa come metodo garantistico.
Nonostante questo, però, è un dato di fatto: lavoro e donne non sempre rappresenta un’accoppiata vincente. Un esempio di questa storia d’amore mai nata è anche la disparità di remunerazione rispetto ai colleghi uomini su cui ci dibattiamo da fin troppi anni senza arrivare ad una soluzione definitiva. Detto questo, però, 99mila donne disoccupate rappresenta comunque una nuova eccezione negativa sulla quale è doveroso fermarsi a meditare.
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Foto di Christina @ wocintechchat.com
Lavoro e donne: gli elementi che fanno la differenza
Sempre secondo le statistiche le donne si laureano più degli uomini e sul posto di lavoro tendono ad avere un atteggiamento più responsabile. Ovviamente si tratta di generalizzazioni volte a fotografare l’andamento della società e che possono essere confutate dai singoli casi ma, nell’insieme, non si discostano certo dalla realtà. Per quale motivo, dunque, il lavoro e le donne sembrano non trovare un accordo costante? Alla base di questo rapporto altalenante ci sono essenzialmente due elementi: la genetica e la tipologia di lavoro.
Perché?
Nel primo caso le donne pagano lo scotto di essere atte alla procreazione. Il che non vuol dire diventare obbligatoriamente madri, ma la sola prospettiva o possibilità di un congedo maternità mette subito in allerta un probabile datore di lavoro. Dunque, nonostante la situazione sia leggermente migliorata rispetto al passato, dobbiamo essere consapevoli che, in sede di colloquio, rappresentiamo ancora una potenziale bomba ad orologeria portatrice di spese superflue e garanzie contrattuali poco convenienti per le aziende.
La seconda variante, invece, può essere rappresentata dalla tipologia di lavoro che si sceglie o per cui si è selezionati. Mi riferisco, in particolare, a tutto l’ambito culturale, artistico e creativo con cui il mondo femminile sembra essere legato da affinità elettive. In questi casi specifici il binomio lavoro/donne risente in maniera evidente anche dello scarso valore che l’andamento economico attribuisce ad alcuni settori.
Il che vuol dire affibbiare la malcelata qualifica di fancazziste a figure professionali che, ad esempio, si muovono proprio nel mondo della cultura o delle arti visive. In questo caso l’atteggiamento che si deve sopportare è quello di ironica accondiscendenza di chi crede che si tratti di occupazioni hobbistiche e, per questo, si può anche evitare una giusta retribuzione.
Lavoro e donne: il tentacolare mondo dei freelance
A questo punto siamo arrivati a quello che secondo me, basandomi sulla mia esperienza e su quella di molte colleghe, rappresenta uno dei nodi fondamentali della situazione che ha portato alla registrazione di un dato di disoccupazione così allarmante per una sola categoria. Sto parlando, in modo particolare, della condizione del freelance.
Per tutti quelli a reddito fisso, “costretti” a rispettare orari d’ufficio vincolanti, il nodo dei liberi professionisti ha sempre rappresentato una sorta di paradiso in cui è possibile lavorare quando si desidera. Dedicando magari del tempo a delle lunghe pause pranzo e a sessioni di shopping.
Free? Non sempre
Ecco, vorrei definitivamente impegnarmi per sfatare questa leggenda metropolitana. In realtà il lavoro del freelance è piuttosto impegnativo visto che, se non si produce, non si guadagna. In sintesi, le entrate sono variabili e dipendono dalla quantità di lavoro che siamo riusciti a portare a casa. E non si tratta dell’unica variabile da considerare.
Essenziale, infatti, è mantenere sempre un livello alto di professionalità, puntualità e affidabilità per mantenere il poco terreno conquistato. Si, perché non tutti evidenziano il fatto che, nel corso del tempo, la figura del freelance è rientrata nella normalità per molti ambiti lavorativi. Costringendo a quella che io chiamo una guerra tra poveri per aggiudicarsi le poche offerte disponibili e a delle retribuzioni spesso ridicole o offensive.
Detto questo, come si inserisce il combattuto rapporto tra lavoro e donne in questo ambito? Sicuramente non nel migliore dei modi. Coniugare la parola freelance con il mondo femminile richiede spesso doti da giocoliere o funambolo per tentare di mettere in accordo il diritto di poter essere tutto ciò che vogliamo. Senza rinunciare ad un solo aspetto delle nostre vite. Muovendomi da sempre nell’ambito del giornalismo spesso ho visto colleghe affrontare con stoicismo maternità e malattie senza poter rallentare un attimo. O permettersi un solo respiro di riposo.
La concorrenza e gli atteggiamenti spesso ricattatori dei datori di lavoro impongono di non cedere il passo e di trovare sempre soluzioni alternative. Quasi inevitabile, dunque, che in tempi di pandemia, come in qualsiasi altro momento di crisi, le aziende si liberano immediatamente dell’eccesso di freelance e, in modo particolare, di quelle 99mila donne disoccupate che continuano a mettere in gioco loro stesse senza sconti.
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