Avevo sette anni durante il Mundial di Spagna nel 1982. Italia-Argentina ancora oggi è il grande tavolo della camera da pranzo, le manine attente a non fare pasticci coi pennarelli e le domande su quel giocatore che si chiamava Diego Armando Maradona. Di Italia-Brasile e Italia-Polonia – la partita più scontata della storia del calcio – ho immagini un po’ più vaghe. Sicuramente ero già in vacanza, come il 90% degli italiani. E di sicuro Paolo Rossi mi sembrava un fenomeno. Segnava a ripetizione, distruggeva i giganti, aveva umiliato la squadra di Falcao e tanto mi bastava per rendermelo meraviglioso.
Mi avevano sempre detto che il calcio non era roba da donne. E in effetti a me non interessava neanche un po’. Fino a quando non scoprii che quello sport potesse essere un modo di entrare in contatto coi ragazzi, imparando a parlare la loro lingua. La cosa mi appassionò a tal punto da trovare le mie motivazioni per amare una squadra e una palla che rotolava in mezzo al campo. La mia prospettiva era soprattutto quella della spettatrice televisiva, conduttrice radiofonica e qualche volta della tifosa da stadio. Il calcio è diventato nel tempo parte necessaria delle mie memorie. A tal punto da ricordare esattamente interi momenti della vita a seconda delle partite.
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Foto Facebook – Paolo Rossi
Paolo Rossi, il calcio e l’Italia
Il calcio è una cosa stranissima. Puoi essere un fenomeno per 90 minuti e poi passare la tua carriera tra gli scarpari della prima ora. Magari in quei 90 minuti la storia di una Nazione dipende da te. Puoi essere un mito, il più grande di tutti, come Maradona appunto, che prendeva la palla e ricamava traiettorie d’aquilone. O essere semplicemente l’uomo giusto al momento giusto. Ecco, credo che Paolo Rossi questo sia stato: un miracoloso incastro di spazio e di tempo. L’eterna storia di Davide che sconfigge Golia.
Prendi Italia-Brasile.
Quel Brasile era sicuramente tra le squadre più forti del torneo: Zico, Socrates, Falcao, Junior, roba grossa insomma. Che fare contro quei mostri? Opporre quella che con un altro termine tecnico finissimo definisco tigna. Le randellate di Gentile, ad esempio, utili come le scorribande di Conti e naturalmente i gol di Paolo Rossi. Tre, tutti bellissimi, da vero ladro d’area di rigore. Tanti dopo di lui avrebbero provato a prendere la sua eredità, penso soprattutto a Filippo Inzaghi.
Ma torniamo al Mundial.
L’ultima Coppa Rimet vinta dai verdeoro, prima della sfida contro gli azzurri, fu proprio contro la nazionale di Rivera nel 1970 in Messico. Pelè e soci ci tritarono dopo la leggendaria impresa compiuta dagli uomini di Valcareggi contro la Germania in semifinale. Avrebbe dovuto essere una grande rivincita per noi e così fu. Grazie a Paolo Rossi, appunto.
L’uomo giusto al momento giusto.
Poi venne la sfida alla Polonia di Boniek e ai colossi tedeschi e il 3 a 1 di Madrid che fece esultare Pertini e fece dimenticare in un colpo un girone di qualificazione opaco. Arrivarono gli strombazzamenti per le città (il clacson della 500 di mio zio smise di funzionare tanto fu martoriato), i tricolori, l’esultanza. Un cliente regalò a mio padre una borraccetta comprata a Bilbao durante i Mondiali.
La morte di Paolo Rossi e Diego Armando Maradona colpisce perché tutti amiamo il calcio, anche quelli che lo detestano e lo considerano solo un grande carrozzone senza amore. Ci addolora perché eravamo giovani quando li vedevamo giocare, felici delle nostre piccole vite sicure. Come ha spiegato Giovanni Trapattoni, un calciatore non dovrebbe mai andarsene prima di un allenatore. Lo direbbe un padre di un figlio. Ecco perché siamo addolorati.
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