Questa è la storia vera delle mie dimissioni. Quello che leggerai in questo post corposo è accaduto davvero ed è stato uno momenti chiave di un’esistenza fino a quel momento, il 23 aprile 2010, tormentata da poche, grandi tragedie. Avevo perduto i miei genitori da due anni quando me ne andai dalla vecchia redazione e allora non mi sembrava una cosa eccessivamente difficile da fare. Tuttavia, la vita presenta spesso un conto salato e quel momento di “euforia da dimissioni felici” lo pagai qualche settimana dopo soffrendo le pene dell’inferno. Perché te lo racconto oggi? Perché penso sia importante capire il valore di certi rifiuti. La festa dei lavoratori è importante per questo, perché come disse qualcuno non bisogna abbassare sempre la testa. Anzi.
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Foto di Brooke Lark su Unsplash
Dimissioni: una nuova vita
Avevo calcolato davvero tutto, dovevo solo tirare avanti per un anno e mezzo con la disoccupazione e poi sarei riuscita a trovare di meglio. Tra una divagazione e l’altra poi il mio avvocato sarebbe stato in grado di farmi avere i soldi del TFR, ancora trattenuto dall’azienda. Ero entrata in quell’ufficio sette anni prima e avevo già avuto le mie belle esperienze in radio, ma avevo bisogno di qualcosa di diverso: uno stipendio. Lo trovai all’interno di una redazione giovane, fatta da giornalisti giovani, un posto dove le capacità di ognuno sarebbero state potenziate, dove fare la gavetta vera.
Un giorno dimenticai di finire per tempo un giornale radio e fui assaltata alla giugulare da mio direttore che con soavi parole, che mi fecero tornare a casa in lacrime, mi invitò a non prendere sotto gamba il lavoro giornaliero e a non dilungarmi in sciocchezze. La gavetta vera fa schifo. Sempre con parole soavi, ma di altro tipo, mi supplicò di prendere il posto della collega di grado superiore al mio che non ebbe scrupoli a mollare tutti per andare in un network notissimo. Lo feci.
Diventai così la ragazza poliedrica e preparata, in grado di seguire più cose contemporaneamente, laddove per più cose contemporaneamente si intendeva scrivere i giornali radio sportivi e occuparsi insieme del settore spettacoli, della pulizia dei bagni, della manutenzione degli strumenti e della cura delle piante. Oh, pure il direttore se ne sarebbe andato via qualche mese dopo; quasi tutti se ne sarebbero andati via qualche mese dopo. Anche io. Il 23 aprile 2010.
Il primo giorno assaporai la libertà
tutto mi sembrava un regalo di compleanno. Sarei potuta uscire a fare la spesa a mezzogiorno senza preoccuparmi di dover seguire gli ultimi aggiornamenti di cronaca. Poi, ad un orario decente, avrei preparato il pranzo, dando fondo a tutte le riserve di riviste di cucina, apparecchiando la tavola, con tanto di tulipani gialli sistemati armonicamente in un vaso di fiori. E che dire della possibilità di andare a dormire tardissimo, senza il terrore di doversi svegliare all’alba per preparare la trasmissione.
Il secondo giorno fu come il primo
solo un po’ più lento. Il quinto giorno non uscii a fare la spesa, perché avevo comprato tutto il primo giorno. Di pranzare avevo voglia fino a un certo punto, al massimo prendevo uno yogurt dal frigorifero mangiandolo di gusto davanti alla settantaquattresima edizione del telegiornale che mi stavo sorbendo.
Era uno yogurt magro, quindi neanche a dire che sentivo il bisogno di andare a fare una lunga passeggiata per smaltire le calorie di troppo: non avevo calorie di troppo. Il pomeriggio lo passavo davanti al computer a spulciare qualche annuncio di lavoro, anche se in cuor mio sapevo che era troppo presto per tornare on the road.
Un’occhiata però la buttai lo stesso alla voce annunci creativi. Scoprii così che una figura professionale con le mie caratteristiche in quel momento non interessava ad anima viva. Non me ne preoccupai, perché avrei dovuto? In fondo avevo sempre saputo che diventando giornalista avrei intrapreso una strada difficile. Ma sapevo anche che una come me non se la sarebbe fatta sfuggire nessuno. Se stai pensando che la doppia negazione in realtà affermi ti dico che lo so: sfuggii al 99% dei datori di lavoro.
Per smorzare l’atmosfera “da dimissioni dubbiose” misi un DVD nel lettore. Giusto per ricordare a me stessa che ero una donna libera e che avrei potuto fare tutto. Sì. anche passare un’intera serata a vedere tutta la filmografia di Andrej Tarkovskij.
Il settimo giorno mi svegliai e aprii il computer senza fare colazione.
Accidenti, era morto un attore importante. Sentii forte dentro di me una voglia inspiegabile di prendere la mia rubrica, scorrere i numeri e chiamare un amico del caro estinto per farmi rilasciare un’intervista. Buttai giù un coccodrillo di poche righe, cercando tra tutti i CD il brano giusto per accompagnare il servizio. Passò un’ora, ero ancora in pigiama e solo dopo un’altra ventina di minuti mi resi conto che quella frenesia non era assolutamente giustificata, perché non sarebbe più stata quella la mia vita.
A quel punto, solo a quel punto, ipotizzai di mangiare qualcosa. Preparai un caffè senza zuccherarlo perché tanto avevo un pacchetto di Pavesini. Non ero certa del nesso tra le due cose, ma la certezza in quel momento non mi sarebbe servita a molto. Aprii il televisore, sintonizzandomi sull’emittente all news preferita quando all’improvviso iniziò a serpeggiare un malessere infido.
Al telegiornale l’idea chiamare l’amico del caro estinto l’avevano avuta anche loro e fecero benissimo. Era il racconto più struggente che io avessi mai sentito. In piedi, in pigiama, coi capelli arruffati, una tazzina di caffè freddo, le briciole dei biscotti sul piatto, mi venne da piangere. E non solo perché l’attore morto mi stava davvero simpatico, ma perché ebbi un’intuizione appropriata. Eccolo lì, lo “spirito delle dimissioni tristi”
Gli avrei fatto le domande giuste, sarei stata lì a raccogliere quelle dichiarazioni, avrei ridotto l’intervista di quattro minuti in una risposta di 40 secondi, tagliandola in maniera perfetta, così perfetta che neanche il più bravo dei fonici si sarebbe accorto dei tagli. L’avrei messa “alta” nel giornale radio, subito dopo la politica. Lo avrei fatto eccome. Ma non potevo.
Il nono giorno
una strana attività ormonale portò le mie tette a ingrossarsi e a vedere una costellazione di brufoli sul mento. Avevo la certezza di essere ancora viva, non c’erano catene che mi tenevano imprigionata. Decisi di uscire e di fare una passeggiata in centro, un giro senza meta tra le bellezze di Piazza di Spagna, guardando le vetrine di via Condotti, facendo le smorfie davanti alla gonna di Prada che sembrava un sacco di patate.
Casualmente mi accorsi che l’Ordine dei Giornalisti era proprio lì vicino e sempre casualmente decisi di andare a parlare con qualcuno, prendere i moduli relativi alla disoccupazione. Scesi le scale con la sicurezza che le dimissioni erano la giusta decisione. Non tornai a casa subito, perché c’era il sole
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In quel momento era sicuramente la decisione giusta. Ti capisco bene. Un abbraccio ❤️❤️ Stefania
Un abbraccio a te!!! 💖
Ti avrei letto per ore ❤️
Grazie di cuore ❤️