Durante la mia prima infanzia ho brillato per compostezza e tranquillità. Con i miei lunghi capelli scuri e i grandi occhi neri sembravo avviata sulla strada di una naturale eleganza, destinata a non deludere le aspettative di famigliari e amici. Questa situazione idilliaca, almeno per gli altri, però è durata fino a quando nella mia giovane vita è entrata un’amica particolare che mi ha insegnato il valore della disobbedienza. La cattiva ragazza in questione non è altro che Jo March, voce narrante del romanzo Piccole Donne e alter ego dell’autrice Louisa May Alcott.
Com’è riuscito, però, un personaggio di finzione a cambiare la rotta della mia crescita personale? Presto detto, facendo sfoggio di un’autonoma disobbedienza. La natura indipendente di Jo March, infatti, non deve essere interpretata come un’espressione negativa. Piuttosto, come l’invito a considerare la femminilità oltre i modelli che, nonostante il cambiamento dei tempi, tendono ancora oggi ad essere preimpostati.
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Jo March: disobbedienza è autodeterminazione
Prima di continuare oltre, però, è bene chiarire cosa s’intende quando si fa riferimento alla disobbedienza in relazione alle donne. Dal mio punto di vista si tratta di un atto positivo compiuto non per creare caos e confusione ma per definire e determinare noi stesse. In questo senso Jo March diventa un esempio perfetto e concreto di disobbedienza costruttiva.
Questa piccola donna è consapevole degli elementi che definiscono la sua natura. Non è composta, brucia vestiti, mal sopporta l’etichetta dei tempi e, soprattutto, non intende mettere a tacere il bisogno di autodefinire sé stessa. Certamente non rappresenta l’immagine dell’angelo del focolare o della madre perfetta, ma la negazione di questi due ruoli non ha alcun significato distruttivo. Semplicemente non si adattano alla sua natura.
In questo senso, dunque, Jo è una disubbidiente senza nessuna ambizione di femminismo, priva della necessità di attribuire alle proprie azioni un significato universale o rivoluzionario. Ed è proprio questa attitudine che le ha attribuito una modernità capace di andare oltre il linguaggio un po’ affettato del romanzo e le semplici situazioni quotidiane in cui è immersa.
Josephine March è consapevole di essere Jo e, per dare risonanza alla sua voce, è pronta a disubbidire agli occhi della società tagliandosi i capelli, seguendo la sua smania di scrivere e affrontando l’avventura per testare la forza del proprio carattere. Tutto pur di farsi strada nel mondo, anche da sola.
Jo e la disobbedienza sentimentale
Che sia chiaro, però: essere Jo non è facile. Per questo è necessario poter contare su una convinzione interiore destinata a non vacillare. O quanto meno, a non sgretolarsi al primo soffio di vento. Gli ostacoli che una disobbediente di questo stampo può incontrare sono posti dal giudizio esterno che, di fronte all’altrui testardo coraggio, tende a voler ridurre ogni elemento dissonante all’interno di canoni conosciuti e rassicuranti.
Se poi, questa disobbediente originalità si esprime anche nel campo sentimentale, la questione si fa più complessa. Nel romanzo Jo dichiara con convinzione di non ambire al matrimonio. Dal suo punto di vista, insomma, la realizzazione di una donna non è legata ad un abito bianco e alla marcia nuziale.
Una dichiarazione che non cela alcun atteggiamento di contestazione a scelte più tradizionali. Anzi, agendo sempre in totale autonomia e assumendosi in prima persona oneri e responsabilità delle proprie scelte, svela scenari inaspettati e dalle infinite possibilità. Dalla disobbediente signorina March, dunque, ho appreso l’inestimabile ricchezza di saper camminare in autonomia.
Perché attraversare il mondo da sole non sarà sempre facile ma è possibile.
Se, poi, lungo la strada ci affianca un buon compagno di viaggio la disobbedienza potrebbe intraprendere nuove e imprevedibili deviazioni.
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