Nove volte su dieci negli ultimi anni mi è capitato di sentire la seguente frase: «Ma non è il miglior Woody Allen». Ci sta. Il buon Woody ha deluso la sottoscritta molte volte e anche di recente. Allora? Il vecchio Woody Allen non tornerà più, ma avremo sempre i suoi capisaldi e quelli non ci abbandoneranno mai. In questo ultimo film, Un giorno di pioggia a New York, però, ho ritrovato tanti elementi del suo cinema e quando l’altro giorno sono uscita dalla sala avevo decisamente gli occhi a cuore. Perché? Perché si tratta di una commedia romantica deliziosa con le sue profondità, perché in ogni sequenza spira un vento leggero e delicato che scompiglia ogni piano, perché Allen realizza almeno una grande rivoluzione, superando (per lo meno qui) la dimensione da perenne Edipo Relitto. Se ti va di capire perché ho amato Un giorno di pioggia a New York, continua a leggere.
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Timothée Chalamet e Selena Gomez
Un giorno di pioggia a New York
Prendi una coppia di ragazzi, Gatsby (nomen omen) e Ashleigh, mettili a New York durante un fine settimana piovoso. Lascia che le loro vite, apparentemente perfette, finiscano per crollare sotto una serie di imprevisti. E goditi lo spettacolo. Quello che sembra il grande amore della vita, non è altro che l’anticipazione di qualcosa di più bello e inaspettato (non solo a livello sentimentale). Il cuore del film è tutto in questa scoperta, dolorosa ma necessaria. Una scoperta che per il giovane protagonista, l’adorabile Timothée Chalamet, passa soprattutto attraverso la risoluzione del rapporto con la madre (basta una sequenza a Cherry Jones per essere perfetta).
Quando ti vien voglia di criticare qualcuno» mi disse «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.
Lo dice il Gatsby di Francis Scott Fitzgerald parlando del padre ed è una sorta di mantra, in senso negativo, anche per il protagonista di Allen, angosciato dal peso della sua famiglia e dai vantaggi di cui ha indubbiamente usufruito negli anni, a tal punto da ritenere naturale sperperare un futuro di successi decidendo di fare il giocatore di poker (Dostoevskij?). Cosa gli manca?
Gli manca la sua New York
che ritrova con la fidanzata, bionda bellezza del Sud che ricorda la Wanda di Lo sceicco bianco alle prese con altri problemi e che proprio non riesce a vedere/capire il ragazzo che le è accanto. Ne parla addirittura come di un autistico. E allora in questo giro di vite lieve e tenero, dove anche le cose brutte diventano accettabili, Allen ci regala l’ennesimo ritratto di una New York palpitante e splendente, aiutato dalla grandiosa fotografia di Vittorio Storaro e da una musica che non si stacca dal cuore.
Con i suoi musei carichi di bellezza, certi intellettuali che vorresti vedere banditi dal consesso umano, donne dalla dubbia moralità ma in fondo garbate e i locali jazz dove si può improvvisare al piano, New York insomma è il giusto palcoscenico per agnizioni vitali e per tutti quegli esseri umani che proprio non riescono a rinunciare al monossido di carbonio. Con qualche graffio ironico. «Soho, pieno di creativi, ti piacerà. Poi però è diventato troppo costoso, quindi si sono trasferiti a Tribeca, ma anche lì è diventato troppo costoso, quindi sono andati a Brooklyn. Tra poco torneranno da mamma e papà» dice Gatsby alla sua ragazza, disegnando la nuova mappa della Grande Mela. E decidendo (forse) di allontanarsi da mamma e papà.
Vedilo. E sogna come ho fatto io.
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