Sognavo una finale di Coppa del Mondo tra Francia e Inghilterra. La Francia ci ha dato il cinema, l’Inghilterra il calcio. E avrei potuto dire con malcelato orgoglio che entrambe le nazioni avevano contribuito alla mia formazione culturale e professionale. Invece in finale è andata la Croazia e il castello che mi sono costruita è miseramente crollato. Poco male però. Perché di calcio voglio parlarti lo stesso.
Sì, appartengo a quella schiera di persone che non si perde una partita neanche sotto tortura, che ama le statistiche e sa di storia del pallone. Sono una tifosa becera travestita da lady, uno spettacolo indegno per ogni essere umano che vuole fregiarsi di questo titolo.
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Foto di Fauzan Saari su Unsplash
Calcio, altro che favole
E dire che il calcio lo detestavo. Odiavo soprattutto il fatto che a causa delle partite non riuscissi mai a vedere in santa pace i cartoni animati. Poi è arrivata l’adolescenza e con essa la piena consapevolezza di essere un disastro di ragazza.
Mi appassionai di calcio il giorno che mi portarono allo stadio per la prima volta.
L’impatto che ebbe la visione del verde del prato su quella bambina fu deflagrante. Ancora oggi mi emoziono al pensiero delle mie piccole gambe che si arrampicavano sui gradoni dello Stadio Olimpico e al ricordo di quel profumo meraviglioso. Un odore dolciastro di zucchero, sigarette e gomme da masticare. “Che devo fare?“, chiesi a mio padre. “Niente… tifa. E se segniamo grida gol. Così… GOOOOOL“, rispose facendo fluttuare la mano in aria. Come a salutare il fantomatico avversario. Ciao bello, alla prossima!
Perché una rete scatena la tracotanza sopita.
Il gol della tua squadra è l’emozione perfetta, un’esperienza che niente può migliorare. È pura manifestazione del trascendente, è rabbia che fugge, dolore che si annienta. È amore che si realizza. Quindi è paura che tutto possa finire da un momento all’altro, perché non si può essere più felici degli dei.
In Febbre a 90°, il protagonista, il mio alter ego maschio, riesce a pronunciare solo una frase quando l’Arsenal segna la rete più importante della sua storia moderna (toh, era il 26 maggio).
“Vedrai che scendono dritti da noi e segnano. Vedrai se non lo fanno”.
Io e Paul Ashworth condividiamo lo stesso pessimismo cosmico quando si parla di calcio. Vai in vantaggio? Allora annullano la rete, è matematico. Non è un rito apotropaico, piuttosto è la certezza, appartenente solo a certi tifosi di certe squadre, che la vita sia un cumulo di assurdità.
Scintille impazzite di caos che si manifestano tutte assieme durante i 90 minuti di una partita. Puoi prendere appunti, studiare, ripetere a te stessa che la prossima volta sarà diverso e non soffrirai più le pene dell’inferno per un pallone che rotola oltre la linea bianca. Tanto sei fregata lo stesso. E al primo match di campionato continuerai a sentire la solita leggera strizza.
Amo poche cose nella mia vita quanto la mia squadra.
Non è solo una questione di cuore (e al cuore non si comanda). Il discorso è più complesso e non so nemmeno se sono capace a farlo, ma ci provo. È una questione di identità. Io non sono quella che sono perché sono tifosa della Lazio, no. Semmai è il contrario, tifo Lazio perché sono una sognatrice, una romantica casinara, un’idealista. Una strega che fa incantesimi.
E questa follia di cui ti sto parlando appartiene a tutti gli amanti del calcio, nessuno escluso. Ecco perché oggi alle 17.00 sarò incollata davanti al televisore. I riti non hanno valore, non per me. Eppure, quando guardo una partita sento papà seduto al mio fianco, con le mani giunte in preghiera e l’immancabile corno.
E rivedo quei bambini sudati e scapigliati che durante la ricreazione se le davano di santa ragione. Per essere felici gli bastava solo un gol più degli altri.
Dai facciamo le squadre. Chi ci sta in porta?
Io no. Sto in attacco.
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