Rieccomi a parlarti di me, delle mie crisi adolescenziali (e della mia prima cotta) e di quella strana voglia di scrivere e inventare storie. Nell’ultimo post su Watts, la protagonista di Un meraviglioso batticuore, ero arrivata alla conclusione che mi piaceva vivere e immaginare situazioni in cui l’eroina smetteva di essere un maschiaccio perché finalmente si innamorava. Il punto è che, esattamente come Watts, se mi piaceva qualcuno, preferivo guardarlo da lontano. Lasciavo che si strusciasse con le ragazzine cotonate, certa che sarebbe tornato da me. Che avrebbe apprezzato la dolcezza della piccoletta dagli occhi grandi. Qualcosa non tornava, ora lo so.
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La prima cotta. Ahi
No, dico, provaci tu a vivere una cotta in santa pace, circondata da suore che ogni santo secondo ti parlavano di sesso come del peccato più grande. Lanciavano continuamente anatemi su di noi.
Ci impedivano di truccarci e di mettere lo smalto, anche quello trasparente. Indossavamo degli orribili grembiuli blu coi ricami sul collo. Eppure all’epoca mi sembrava una condizione quasi accettabile. Tutto mi sembrava ragionevole, anche quegli stupidi divieti, perché in fondo io un corpo da esibire non ce l’avevo.
Quando arrivai in seconda media, però, successe l’incredibile, tre maschi furono ammessi nella classe di prima. Chiedo scusa ai diretti interessati, ma degli altri due non me ne era mai fregato niente, io avevo occhi solo per Gianmaria, la risposta di Viale Marconi a Pierre Cosso.
La prima cotta. Davvero?
Gianmaria non era piccolo, era basso, non trovo altro modo per dirlo. Aveva il fisico di uno scricciolo, ma il volto di un angelo biondo con gli occhi verdi. Era perennemente imbronciato, come se gli avessero rubato tutta la vita. E poi indossava sempre e solo un maglione. Un pullover della Marina Yachting a rigone orizzontali che mostrava orgoglioso alla fine delle lezioni, quando toglieva il grembiule e lo appallottolava nello zaino. Lo guardavo con gli occhi dell’innamorata, ma non avevo il coraggio di avvicinarlo. Non era nelle cose. Le mie compagne di classe, loro sì, gli parlavano costantemente, da pari a pari, anzi da pari femmina a pari maschio. Io ero un’ombra timida.
Promisi a me stessa che un giorno anche io sarei diventata finalmente donna, lasciandomi carezzare dalle braccia ossute di Gianmaria, camminando con lui sotto le arcate. Sempre queste benedette arcate, non ci si crede.
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La prima cotta (botta)
Era un giorno di sole e avevo anche trovato le arcate. La scuola stava per finire. Anche l’intervallo sembrava diverso. Come ogni giorno scesi in cortile con le altre per dedicarmi a della sana e vigorosa attività sportiva. Perché il diavolo si nascondeva nell’ozio e tutti, dico tutti, dovevamo contrastare il demonio correndo. Quindi se per sbaglio mi fossi seduta a mangiare l’etto e mezzo di pizza bianca e unta che mi aveva comprato mamma, avrei rischiato di somigliare ad una meretrice indemoniata che adescava gli adolescenti con il profumo della focaccia genovese.
Bisognava muoversi, giocare a pallavolo, lasciarsi pervadere dalla prorompente vitalità che si scatenava gioiosa in quei minuti di libertà! E bisognava vedere Dio nelle scatenate partite di minibasket! In realtà avresti dovuto vedere Dio ovunque!
Abbandonai la panchina dove mi ero accomodata solo un momento per sbocconcellare la mia merenda e mi diressi verso l’unico posto in grado effettivamente di farmi vedere Dio: il biliardino. L’improbabile allegria delle suore che mi circondavano assunse definitivamente forma di allucinazione quando mi accorsi che un pallone era diretto verso di me. Swoooooosh! Prima sentii un suono confuso, poi avvertii lo spostamento d’aria, infine arrivò la botta, dritta sull’occhio destro.
Gianmaria aveva deciso di sfrenarsi tirando lontano una palla di cuoio, bianca a esagoni, ignorando il fatto che quella sfera si sarebbe infranta pochi secondi dopo e a velocità raddoppiata sul mio cranio. Panico. Dolore. Confusione. Ero senza fiato e non ce la facevo nemmeno a piangere.
C’è una ragione in tutto
Perché Dio, che non mi aveva mai filata, fra tutti gli esseri umani aveva scelto me in quel momento per ricevere la botta delle botte. Cosa aveva voluto dimostrare al mondo con quella decisione? Non lo sapevo, ma certo vedere Gianmaria correre disperato verso di me è stata la più bella delle ricompense.
– Scusami scusami scusami scusami, non ti avevo visto. Stai bene?
– Sì, sì non ti preoccupare. Sto bene… sto bene…
Gianmaria mise il braccio attorno alle mie spalle, sorreggendomi per un tratto di strada. Ci sarebbe stata bene una canzone, forse Crazy for you di Madonna, un tocco di ralenti, qualche primo piano evocativo. Tutti cercavano di darmi una mano, ma il tempo si era fermato, c’eravamo solo io e lui. Intorno a noi confuse figure nere si affrettavano a rompere le emozioni. Suor Luisa mi portò un bicchiere d’acqua, suor Albina disse un paio di battute a cazzo per stemperare la tensione e anche per evitare che il ragazzino potesse in qualche modo attentare alla mia virtù, ingravidandomi.
Io, dodicenne ferita, stavo letteralmente in paradiso, avvinghiata a Gianmaria.
– Ammazza, sei proprio forte. Se l’avessi presa io una pallonata così, ero già morto.
Morire? E perdermi l’unica frase che Gianmaria mi avrebbe mai detto nella sua vita? Non scherziamo. Ovviamente se ne andò l’anno successivo e non ebbi più l’occasione di parlarci, ma finì lo stesso nei miei sogni e nei miei racconti. Era nascosto in ogni ragazzino che faceva innamorare la protagonista e che la baciava. Mi piaceva un sacco. Di lui conservo il ricordo di un leggero trauma cranico.
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