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Domitilla Pirro, sicura di essere Impropria?

Neanche me lo ricordo quando ho incontrato Domitilla Pirro la prima volta. L’evento si perde nella notte dei tempi. Ricordo che sicuramente eravamo al cinema, forse l’Adriano. Per lavorare (certo, come no) e recensire un film. Sono passati tanti anni da quel giorno e Domitilla è diventata grande. Oltre ad essere giornalista pubblicista e direttrice creativa di Fronte del Borgo alla Scuola Holden di Torino, scrive, produce e conduce corsi di narrazione. In poche parole, una figa pazzesca. Non lo sa (be’ forse ora lo scoprirà), ma io sono una sua fan. Quando leggo qualcosa che lei hai scritto, qualcosa succede sempre nel mio cuore. Di quante persone potete dirlo?

Così, appena ho saputo che assieme ad altre quattordici scrittrici ha contribuito alla stesura di Brave con la lingua, una raccolta di racconti curata da Giulia Muscatelli per Autori Riuniti, le mie antenne hanno cominciato a vibrare. E a ragione, aggiungo. Perché il libro è davvero bello. Bello nel senso più pieno del termine. BCLL non è solo una passerella di bravissime narratrici, ma una sfida. Sì, esistono parole, frasi (quindi pensieri) che bloccano noi donne in uno schema-gabbia. Ce le costruiamo anche da sole, naturalmente. Tanto alla fine il risultato è sempre quello: la palude.

Leggi anche: Brave con la lingua, quando le parole rompono gli schemi

Brave con la lingua, la copertina del libro

Domitilla Pirro è Impropria

Domitilla ha scritto un racconto intitolato Impropria, in cui parla di madre e madri. Sarà per questo che mi è piaciuto tanto, perché sul legame con mia madre continuo a interrogarmi anche oggi, che non è più qui. E perché quella frase, “Quando toccherà a te“, me la sono sentita dire tante volte anche io. Un ricatto bell’e buono. Quando toccherà a noi, per la cronaca, sarà diverso. È già diverso.

Da dove nasce Impropria?

Amo l’internet perché consente di dare risposte come questa: Impropria nasce da qui.

Brave con la lingua, Freud e la madre

Come sei entrata a far parte di questo progetto?

Alcuni mesi fa avevo deciso di scrivere un pezzo per minimaetmoralia a proposito di BCLL, che sapevo essere in fieri. Dopo un paio di bicchieri di vino e un esilarante recap delle puntate precedenti insieme alla curatrice dell’antologia Giuli Muscatelli, amica brillante che non vedevo da un po’, la situazione si è felicemente ribaltata: non più io a intervistare lei, ma lei a chiedere un racconto a me.

Cosa vuol dire secondo te parlare di femminile oggi?

Vuol dire infilarsi in un ginepraio molesto: in certi ambienti si richiede a chi è vaginomunita una specie di… tessera d’appartenenza, tessera da rilasciare solo a patto di rinunciare a qualsiasi forma di autoironia nel prendere in esame la questione. Tessera da rilasciare solo a patto di riconoscere l’identità femmina = vittima. Il resto è rape culture e darsi di gomito. No: a me piace pensare che esistano terze e quarte vie. Che esista l’alternativa. La possibilità di un dialogo.

Domitilla Pirro, l’ironia è ricchezza

Come può questo libro contribuire al discorso?

(Col)lateralmente, io credo: riconoscendo l’esistenza di aree grigie, il valore della complessità, il potere supremo della rinuncia a prendersi sul serio. Con progetti come quello del Buco Nel Cervello, ad esempio, che è diventato un corso di… riprogrammazione di genere di cui mi occupo da qualche anno con la sceneggiatrice Sara Benedetti, l’idea è sempre stata quella di adottare un approccio ironico alla questione de-genere. Ecco: lo spirito è lo stesso.

Che idea ti sei fatta del movimento #metoo?

Atteso, inevitabile, benedetto; una slavina, però. Che tutto travolge, ingoia e devasta. Sono curiosa di vedere l’onda lunga dei suoi effetti e che genere di mondo si ricostruirà su quelle macerie — perché sono macerie, quelle in cui all’altro si nega pari diritto di cittadinanza.

Qual è stata la tua parola chiusa?

In BCLL, titoli dei racconti e relative parole chiuse non sono necessariamente dialoganti; nel mio caso invece è accaduto che lo fossero perché la parola chiusa che ho scelto, l’espressione vincolante e per me intollerabile (“Quando toccherà a te”), l’ho formulata in modo decisamente improprio.
Innanzitutto è una formula parziale: per intero suonerebbe un po’ come “Quando toccherà a te, capirai”. Poi non mi è stata mai detta con queste testuali parole, ma — di solito — in dialetto, o con un accento, una cosa tipo “Quanno poi te tocca vojo vede’ che fai”. Sottinteso: “A parla’ so’ tutti boni“. Che, se ci pensi, non è la stessa cosa. Non lo è affatto. Ma parla la stessa lingua del meme di Freud ignorante che linkavo sopra, capisci. E ha a che fare con la stessa faccenda.

Quando toccherà a te o del libero arbitrio

La frase in questione, che è una condanna, una specie di maledizione, ha a che fare innanzitutto col libero arbitrio. E già questo me la rende cara: non è riferibile meramente all’umano femmina, si applica in astratto a chiunque; è la generazione precedente che ingabbia la successiva col ricatto del “Figlio mio, voglio proprio vederti affrontare gli stessi cazzi amari quando sarà il tuo turno, e non credo nemmeno per un attimo che compirai con successo scelte diverse. Che approderai a risultati diversi. Te lo auguro, magari, nel senso che non voglio il tuo male: ma non ci credo“. Questo vuol dire.

Se poi valuti il tutto da una prospettiva ombelicale, personale, allora sì la parte di femmina umana viene a chiedere il suo. La prospettiva è quella di donna adulta vs. ragazzetta (o percepita ragazzetta), di professionista affermata vs. precaria, ma soprattutto di madre campana-di-vetro vs. eterna figlia — figlia alla quale si chiede di operare un salto doppio.

Ridere o dell’evitare cipressi

Da un lato le si domanda di restare in questo limbo del “Quando toccherà a te, capirai”, cioè nel regno del “Porta rispetto a chi è messo quotidianamente davanti a scelte capitali di fronte alle quali tu moriresti, scelte per le quali tu non sei equipaggiata“; dall’altro alla generazione figlia si chiede invece di passare oltre, di prendersi questo benedetto turno, di compierle, queste scelte — scelte che, appunto, vanno nella direzione della carriera tradizionale, dei legami storici, della perpetuazione del mito genitoriale. Ed è qui che torno al mio Freud ignorante, ecco: perché, a vedere generazioni madri condannate e in sofferenza — condannate ad esserlo, madri, perché prive di strumenti per operare una scelta consapevole di sano egoismo, una scelta di tutela del sé, oppure il contrario, purché consapevolmente — generazioni madri che ritengono abbia senso suggerire alle generazioni figlie di caricarsi i medesimi fardelli, sapendo quel che ora sanno, ecco, a volte l’unica prospettiva salvifica — credo, nella mia ignoranza — è una risata di pancia, di cuore. Che il rischio è sempre de svejasse tutti, domani, sotto a ’n cipresso; e non ne vale davvero la pena.

Femminista impropria

Qual è a livello generale la parola (chiusa) che ti fa incazzare di più?

Probabilmente è l’espressione che ho scelto, anche se — me ne rendo conto — rientra solo marginalmente nel novero, essendo… impropria per le ragioni di cui sopra.
Se parliamo invece più strettamente di etichette e pseudo-etichette, di definizioni limitanti perché usate in modo distorsivo, sai che ti dico? Va a finire che la parola che mi fa incazzare di più, al momento, è proprio femminista; ché l’intersezionalità è lontanissima, e la prospettiva ombelicale ormai asfittica.

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Francesca Fiorentino
Francesca Fiorentino
Giornalista professionista e podcaster, scrivo, cucino e faccio ridere, non sempre in quest'ordine. Amo la radio, i film, le margherite, le magliette a righe, i regali inaspettati e i taccuini nuovi. Qui leggi il mio sito professionale


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