Scommetto che vuoi sapere perché oggi ti parlo di Candy Candy. Va bene. Tutta colpa della mia fervida fantasia. È un vizio che non sono mai riuscita a togliere, quello di immaginare storie prima di addormentarmi. Le ho sempre chiamate autofavole. Ed erano (forse sono ancora) qualcosa a metà tra una storia, un film e un grande atto di onanismo. Narrativo, ma pur sempre onanismo. 34 anni di lavoro incessante al solo scopo di vedere qualcosa che nessun palinsesto avrebbe mai potuto concedermi.
E se una non sa da dove partire, in genere segue delle tracce che sono state già segnate, dei punti di riferimento che servono per spiccare il volo. Non c’è nulla di sconvolgente nell’affermare che, alla fine, gli schemi a cui ci si ispira siano sempre gli stessi e basta leggere le favole per rendersene conto. La parola fiaba contiene in sé il destino di un lettore, o meglio ciò andrà a cercare in seguito, l’oggetto del suo desiderio.
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Candy, oh Candy!
Negli anni ’80, quelli della mia infanzia, una bambina poteva abbeverarsi alla fonte dei cartoni animati in orari ben fissati. Nel pomeriggio, più o meno alla fine dei compiti, si celebravano riti pagani che si chiudevano con pane, Nutella e Candy Candy. Se il mio archetipo del cuore era Cenerentola, la giovane orfana proveniente dalla casa di Pony, ne rappresentava lo sviluppo femminista. In quale cartoon si poteva pensare che una donna vivesse per conto suo, anzi, dividesse l’appartamento con un uomo smemorato!
Dolce Candy era un inno all’emancipazione femminile. E quella bambina con gli angoli della bocca sporchi di cioccolata colse subito l’aspetto rivoluzionario della serie. Tarzan Tuttelentiggini e Terence diventarono la prima coppia modello della sua vita, non solo la traccia di tutte le sue future creazioni artistiche, ma anche delle relazioni future.
Candy, eroina. Sociale
L’asse portante del personaggio creato nel 1975 era la sua condizione di orfana. Mi sono spesso trovata a scrivere storie in cui la protagonista non avesse i genitori. Al di là della questione patetico-lacrimevole, mi serviva solo perché non avevo le capacità di strutturare per bene un rapporto padre-madre-figlio-figlia e siccome le storie erano le mie, eliminavo il problema alla radice.
Inoltre non avere un padre e una madre spingeva il/la protagonista ad una libertà massima. Candy la senza famiglia era una ragazzina felice. Aveva i suoi amici, correva per i prati, si arrampicava sugli alberi e si accompagnava con un procione bianco e nero (ma perché un procione?). A differenza dell’amica del cuore Annie, che voleva disperatamente essere adottata, Candy godeva del privilegio dell’autonomia.
Tuttavia come la Cenerentola di Perrault viveva una condizione socialmente svantaggiata. E anche quando fu adottata dallo zio William, veniva considerata la povera reietta, costretta a vivere nei locali della servitù. Questo non l’aveva di certo fermata. Frequentò la prestigiosa St.Paul’s School, dove conobbe l’amore della sua vita, Terence, figlio di un’attrice teatrale, bel tenebroso depresso e, in seguito alla prima cocente delusione sentimentale, decise di diventare un’infermiera.
Candy, come ti frega la vita
Non ti racconto tutta la storia perché so che la conosci. Quello che mi interessa invece è sottolineare l‘impatto che un racconto del genere ebbe su una bambina di pochi anni. Il romanticismo, l’amore disperato che legava i due protagonisti, il contesto sociale in cui i due si muovevano – gli anni della Prima Guerra Mondiale – la ferocia dei rapporti di classe, il coraggio di Candy esercitavano su di me un magnetismo inspiegabile. Mai per un momento ho pensato nella mia vita di stare dalla parte dei ‘nobili’, dei Legan per intenderci. O di sposare un milionario e fare la vita della casalinga acculturata che trascorreva le sue giornate tra una visita al museo, una seduta di shopping con le amiche, una al centro estetico e una cenetta col marito.
In quegli anni una delle certezze era rappresentata dal fatto che sarei diventata una donna in gamba, grintosa, coraggiosa, con la risposta sempre pronta, sorridente, aperta al dialogo. Se fossi stata una ragazzina malaticcia, poco brillante, incline all’autocommiserazione, probabilmente il mio progetto sarebbe fallito ancor prima di cominciare. Ma ero davvero piena vitalità e la faccenda si presentava decisamente alla mia portata.
Avrei dovuto solo lasciarmi alle spalle le nefaste influenze della scuola cattolica e non farmi condizionare dalle orribili meditazioni della mia maestra che mi considerava un essere sfortunato, una bimba carina, gioviale, ma con poche possibilità di realizzarsi. Altro che essere sfortunato con poche possibilità di realizzarsi. A otto anni avevo già ideato un numero elevato di storie da cui poter attingere ogni sera per addormentarmi.
(To be continued)
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