Hai presente i buoni propositi? Quelli che ci prefiggiamo a settembre, al ritorno dalle ferie. Falliscono sempre e, come funghi maligni, rispuntano a gennaio, con il nuovo anno. A quel punto siamo decisi e incorruttibili: dieta, sport, basta sigarette.
Tanto è vero che arriviamo a marzo con la forma della sedia tatuata sul culo e il braccio affaticatissimo dall’attività di sollevamento del telecomando/spostamento del mouse.
Quanto alle sigarette, nel frattempo ci hanno intitolato una piantagione a Cuba, ad honorem.
Ma i buoni propositi non cedono. Queste mostruose creature della mente alimentate dal senso di colpa e dall’inadeguatezza che ci accompagna su questa terra, settati per farci del male e non lasciarci un attimo di respiro, a volte ritornano.
Per la precisione a primavera, con lo spauracchio della famigerata prova costume, del mettersi a nudo davanti al mondo.
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Buoni propositi. Si fa per dire
Così l’imperativo indotto del rimettersi in forma, l’irritante, immortale, inevitabile salutismo d’accatto da rotocalco che trovi nella sala d’attesa del dentista, fa scattare in noi, deboli umani, un moto d’orgoglio agonistico e inutilmente competitivo. In nome del quale iniziamo, con circospezione, ad aprire le email con oggetto “Il tuo personal trainer”, consultiamo prezzi e orari delle palestre e delle piscine.
E, soprattutto, il 21 di marzo spaccato, decidiamo di fare quella cosa: andare a correre.
Sappiamo che non è per noi, siamo tipi da chiacchierate all’aperitivo, non ci è mai piaciuto sudare. L’ultima tuta che abbiamo avuto era quella in acetato dell’arena ai tempi delle medie, e le scarpe da ginnastica erano delle Reebok anni ’80 che, probabilmente, non hanno voluto neanche alla Caritas. Inoltre agonismo ha la stessa radice di agonia dal greco. Un motivo ci sarà, no?
Equipaggiati con ardore
E dunque, per tentare di trovare una motivazione, una spinta di entusiasmo, ci rechiamo nel negozio di sport.
Con l’eccesso tipico del neofita e i consigli del commesso che ha chiaramente capito che tu sei il pollo da spennare, acquistiamo indumenti avveniristici iper tecnici, fatti con materiali della Nasa da far invidia all’equipaggio dell’Apollo.
- Pippoli luminosi conta passi e dispositivi medico chirurgici da unità di pronto soccorso, di cui neppure Veronesi era a conoscenza.
- Scarpe anti tutto, che non aveva neanche Mennea.
- Una borraccia di design (questa di solito giace in cantina per il resto della vita, o viene riciclata come vaso da fiori).
Così equipaggiati, fissiamo il giorno, convincendo un amico/a pronto al sacrificio a venire con noi, dietro giuramento scritto col sangue di non rivelare niente, di non produrre alcun tipo di prova fotografica o video, e lanciamo la sfida a noi stessi.
Di corsa verso l’abisso
Dovrebbe andare a finire con noi che mangiamo letteralmente la strada, giorno dopo giorno, diventiamo dei runners di razza, ascetici e atletici, e, dopo un anno, corriamo la maratona di New York [immaginiamo amici e parenti che si complimentano e ci guardano con orgoglio, noi che diciamo a un microfono “è stata dura, ma ce l’ho fatta” ecc….].
Dovrebbe.
Invece solitamente veniamo rinvenuti dopo pochi minuti sul ciglio della strada, paonazzi e smarriti, birilli inconsapevoli del guidatore della domenica, con il cuore sul punto di esplodere, il respiro affannoso accompagnato da fischi sospetti, gli occhi al cielo implorando un respiratore e un’entità benigna che ci salvi la vita. E molti soldi in meno sul conto, spesi male. Perché se è vero che l’intenzione è il 90% dell’azione, Abebe Bikila correva scalzo. E vinceva tutto.
E noi non saremo mai come lui.
Meet the author
Giovanna Daddi è nata nello stesso anno del movimento Punk. Ed è l’unica cosa che hanno in comune. Si diverte soprattutto a leggere e ogni tanto scrive cose. È impegnata costantemente nel tentativo, vano, di smettere di fumare. Odia volare.
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