Un maglione rosa. E una rosa rossa. Ricordo questo del giorno della presentazione del mio primo (e credo unico) libro di poesie. Era un lunedì di fine novembre del 2006 ed ero arsa dal sacro fuoco dell’arte. E da un’improbabile cotonatura ai capelli. Da qualche parte dentro di me avevo la certezza di aver fatto qualcosa di enorme. Scrivere poesie è stato il primo passo per buttare i muri che avevo pazientemente eretto negli anni. L’avevo considerato come una piccola esplosione, un salto in mare. Volevo provare ad essere qualcosa in più, a contribuire con il mio verso al grande spettacolo della vita.
Sì, sono stata travolta dalla vitalità del professor John Keating e anche io, come tanti altri giovani della mia generazione, ho creduto che in quelle poesie ci potesse essere una verità profonda. C’era, eccome. Una verità stortignaccola, miope, un po’ compiaciuta. Ma stava lì, in quelle immagini un po’ oscure, a volte così violente.
Quelle parole erano semi sparsi in un terreno brullo. Sufficientemente testardi da rompere il guscio di protezione e venire alla luce.
Ricordi? Ti avevo parlato di Tori Amos e del suo furore sensuale. Ma all’epoca leggevo tanto Sylvia Plath e Alda Merini. E mi piaceva il pensiero di aver scoperto il segreto delle parole perfette.
Non lo avevo mica capito, è chiaro. Però stavo lì, potevo dire di aver fatto una cosa come Patti Smith. Bastava per stare meglio? No.
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Poesie, bussole d’amore
Se per un motivo “X” quindi hai tra le mani il mio primo (e unico, lo ribadisco sempre) libro di poesie, conservalo come una reliquia. Tra qualche anno, forse dopo aver vinto l’Oscar come migliore essere umano del pianeta, te lo pagheranno a peso d’oro. Prenditene cura almeno tu, insomma, visto che io non ho più nemmeno una delle 7.500 copie che la casa editrice mi aveva dato.
E questo la dice lunga sul mio rapporto con le mie poesie. All’inizio sembrava non potessi fare a meno di scriverle. Ogni occasione era perfetta per scarabocchiare versi su taccuini malandati.
La verità è che un essere umano scrive poesie perché è innamorato e non sa cosa fare e dove andare. Quindi a me sono servite da bussola.
Poi ho preso un po’ le distanze. Questo non vuol dire che io sia diventata improvvisamente una cinica, o che quello che avessi scritto non aveva valore, anzi. Ho semplicemente riportato tutto nella giusta direzione. Perché non può essere una poesia a farti stare bene. Può consolarti, compiacerti. Buttare giù i muri. Poi però bisogna allontanarsi dalle macerie. E servono gambe forti.
Poesie e altre catastrofi
Sarò sintetica (e sai che è vero) sulla cronaca dei fatti. Nel settembre 2006, incuriosita da un messaggio, risposi a un annuncio su un giornale spedendo una trentina di poesie. Dopo alcune settimane arrivò la risposta dalla casa editrice. Le poesie erano piaciute molto e mi proponevano di pubblicare un libro. La fantasia non mi mancava, perciò iniziai a scegliere i vestiti per il giorno dell’assegnazione del Nobel alla Letteratura.
Dei tour promozionali per il mondo, neanche l’ombra. Di interviste al TG1 delle 20, anche. Mi ritrovai con un quintale di copie omaggio che per amore dell’arte ho appunto regalato all’intero universo.
Però la presentazione romana, no. Quella me la concesero.
E qui torna alla mente il maglione rosa che comprai per l’occasione e che avrei indossato in un altro momento chiave della mia esistenza.
Te la immagini una giovane donna in crisi, coi capelli cotonati, a parlare dei drammi più o meno grandi della sua vita? Una specie di Tenerone in scala ridotta col cuore in tumulto? Nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di lei, che poi ero io. Invece…
La mia amica sorella Alessandra si presentò in libreria con una rosa rossa. E in quella rosa c’era un discorso lunghissimo. Qualcosa tipo, ce la stai facendo. Basta che ti muovi, però.
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