Chi dice che il tempo sia galantuomo ha ragione. Altrimenti saremmo tutti qui a parlare ancora di Sarahah, la favolosa app social che ci ha appassionati la scorsa estate. Invece neanche ci pensiamo più. Ricordi i bei tempi in cui tutti i santi giorni amici e amici di amici pubblicavano i messaggi ricevuti nell’applicazione? E ricordi anche quante discussioni sui limiti della privacy? Tutto svanito nel nulla.
Anche io te ne ho parlato lungamente di Sarahah e non me ne dispiaccio. Perché in fondo ogni fenomeno social merita di essere approfondito, anche quelli all’apparenza più stupidi.
Il punto però è proprio questo. Quanto può essere definito sociale un fenomeno che si sviluppa in maniera totalmente virtuale. Nel caso di Sarahah senza neanche conoscere l’interlocutore, protetto dall’anonimato.
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Social sì, social no
Sarahah, parola araba che vuol dire onestà, è una app che è stata inventata nel 2016 dal saudita Zain al-Abidin Tawfiq per migliorare la produttività in ufficio. Protetti dall’anonimato, impiegati e affini affidano all’etere il giudizio sul vicino di scrivania (esistono ancora le scrivanie?) o sui direttori megagalattici nella speranza di pungolare il pigrone o di togliersi un peso dal cuore. Senza ottenere risposte.
Si è parlato di fenomeno mondiale, di rivoluzione. Andiamoci piano. Per quanto i numeri dei download siano stati notevoli Sarahah non ha avuto la pervasività di Facebook e non è stata uno strumento social. Ha usato i social.
Questo vuol dire che l’utente medio non è andato a cercare una persona sulla piattaforma per dileggiarla o complimentarsi in anonimo, ma è stato attratto dal post pubblicato dal suo amico su Facebook.
Così ha preso in considerazione l’ipotesi di iscriversi perché voleva partecipare ad un colossale gioco, questo sì, social.
Per far funzionare Sarahah, quindi, dovevi iniziare una campagna social mirata e condividere col mondo il frutto delle elucubrazioni dei tuoi ammiratori/delatori. Ti ci dovevi applicare seriamente, insomma.
Il gioco dei social
A quel punto si innescava la più classica delle reazioni a catena. Post pubblicato su Facebook, “Sono su Sarahah, coraggio scrivete!” che implicitamente voleva dire anche “aspettatevi che vi scriva“.
Primo giro di like di amici. Erano i primi indiziati a scriverti qualcosa.
Domande perplesse su cosa fosse questo coso infernale.
Studio delle altre bacheche per capire il grado di interesse a questa novità.
All’epoca individuai tre macro gruppi di utenti:
- I pubblicatori compulsivi narcisisti di messaggi. (“Ne ho ricevuti 122 solo oggi. Che faccio mi fido?“. In genere chi scriveva questo si fidava dei messaggi belli e diffidava di quelli negativi)
- I pubblicatori compulsivi ironici di messaggi (“Ahahahahaha vado forte tra gli amanti del curling!!!“)
- I moralizzatori socratici che scuotevano la testa e avrebbero voluto annegare nella cicuta piuttosto che partecipare (“Dove andremo a finire di questo passo?“, “Ve la meritate Sarahah“).
Posso con certezza affermare che i pubblicatori compulsivi narcisisti e quelli ironici si sono estinti. E con essi i moralizzatori socratici.
Quindi la domanda è: perché a volte ci muoviamo a ondate, seguendo i flussi delle tendenze più sadomasochiste dei social se non interessa nel profondo?
Può esserci della legittima curiosità verso qualcosa che è completamente nuovo. Forse cerchiamo nuovi modi di ferire una persona o abbiamo troppa paura di essere poco. E allora quel poco, quella sensazione di aver contribuito al grande gioco del mondo con il nostro verso, ce lo prendiamo da soli. Per fortuna, il tempo è galantuomo.
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