La vigilia di Natale a casa mia iniziava alle 7 del giorno prima. Quando mio padre, in piedi già dalle 6, chiamava il suo pescivendolo di fiducia. “È arrivato il peschereccio?“, chiedeva ridendo come un monello. Poi ordinava chili di pesce per il cenone. Io ero felice della sua felicità. Accucciata sotto decine di coperte, sicura di aver scelto il posto più bello in cui vivere, sorridevo pensando alle cose buone che mamma avrebbe cucinato. Soprattutto pensavo al momento in cui avrei scartato i regali. Tutti miei. E bellissimi. Quello era il momento perfetto, perché potevo immaginare tutto ciò che volevo. Anche se poi la realtà mi avrebbe delusa. Ma non potevo intristirmi prima e non lo facevo.
La cena della vigilia di Natale per me è sempre stata più importante del “pranzone”. Di cui generalmente non mi fregava nulla. Tanto quello che doveva succedere era già successo.
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Vigilia di Natale, l’attesa del Natale è essa stessa il Natale
In una casa di calabresi ortodossi il pranzo del 24 era quasi un digiuno. Solo a me, la piccola della famiglia, era concesso il panino al tonno. Che consumavo voracemente davanti a un cartone animato natalizio. Mi addormentavo pigramente sul divano, poi guardavo le lucine dell’albero e del presepio, prolungando la sensazione del sogno.
Più o meno intorno alle 16, quando mamma era solo all’inizio dell’inizio della sua sfacchinata, andavo in cucina ad aiutarla. Facevo poche cose, ma le mie manine davano il loro contributo sbucciando l’aglio. Crescendo avrei preso la delega sui contorni e sui dolci. Fino a preparare la cena quasi da sola.
Una cosa però era il mio solo e unico compito: apparecchiare la tavola. Senza Internet non c’era modo di capire quale dovesse essere la disposizione dei piatti, quindi inventavo tutto. Non doveva mai mancare l’alzatina con la frutta fresca e secca. Il panettone doveva essere sul tavolo. I piatti e i bicchieri perfettamente allineati. Alle 17.00. Ma solo perché non vedevo l’ora di assistere al miracolo della tovaglia rossa.
Papà arrivava da lavoro sempre un po’ prima, ovviamente carico di panettoni che gli regalavano i clienti. E avere un piccolo appartamento invaso dalle scatole rosse era un delirio. La cena era quella che doveva essere: un tour de force maestoso. Una sfida all’arteria. Non tanto per la qualità dei piatti, sublime, quanto per la quantità.
Una poltrona per quattro
Antipasto, primo, secondo, tre contorni, frutta, dolci, spumante. Il tutto settato su 12 persone, anche se noi eravamo in quattro. Al massimo in sei, se ci raggiungevano la zia e la mia cugina adorata. In quel caso la cena veniva tarata per 18 persone. Alle 20.30 la morte cerebrale era quasi vicina, annunciata ritmicamente dalle lucine intermittenti del presepio. Un allestimento degno di San Gregorio Armeno condensato in uno spazio da Puffolandia. Su Italia 1, Una poltrona per due era ed è ancora oggi un obbligo. Con buona pace di chi lo disprezza, giusto per far capire che sa andare controcorrente.
A mezzanotte, lo scambio dei regali. Una volta trovai il chrono della Swatch che mamma e papà avevano destinato a me, addirittura una settimana prima. Non ricordo nemmeno per quale motivo mi diressi verso il primo cassetto del comò, nella camera da letto. Lui era lì, sotto quintali di centrini e documenti. Non ebbi remore a rompere il pacchetto, sistemandolo poi alla bell’e meglio. Così festeggiai due volte. La prima, quando scoprii che avevano azzeccato il regalo. La seconda, quando scartai il pacchetto davanti a tutti.
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