Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, una giovane studentessa di Lettere Moderne sognava di diventare una giornalista. Di più, sognava di diventare una giornalista sportiva. Meglio ancora di diventare una giornalista sportiva radiofonica. A Roma questo significava, e significa ancora, una sola cosa: tuffarsi in mare largo, senza salvagente, di notte. Roba che neanche DiCaprio in Titanic.
La voce dello spot diceva “Questa radio cerca te“. E non se lo fece ripetere due volte. Chiamò, prese appuntamento, sostenne il colloquio (con la segretaria), venne bocciata. Svariate settimane dopo, ormai rassegnata, chiamò nella stessa radio, durante la sua trasmissione del cuore, per fare una dissertazione lunghissima su una partita. Si voleva sfogare e lo fece. Da semplice tifosa. Incassò i complimenti della caporedattrice che in privato le propose un nuovo colloquio. Stavolta col boss in persona. La studentessa gli spiegò di essere stata scartata solo qualche mese prima. Il boss le rispose che se lui avesse sentito la sua voce l’avrebbe presa immediatamente.
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Giornalista, perché?
Te la faccio breve, perché la tizia in questione ero io. In quella radio lavorai per oltre due anni in cui ho imparato a fare tutto. Anche gestire i cali di zucchero dei conduttori e raccontare in diretta, per circa 9 ore, la vittoria dello scudetto della mia squadra.
L’esperienza si concluse alla maniera degli Jedi: visto che il mio tempo lì era finito, me ne andai col sorriso. Primo e unico caso nella mia vita professionale. Fine della favola. Da lì in avanti sarebbero iniziati i dolori. E sarebbero arrivati tre posti di lavoro “ufficiali”. Che ho sempre lasciato io per dignità e per mia incapacità ad accettare le ingiustizie.
Questa è la maxistoria…
Niente è meglio di una lunga notte di riposo per tirare fuori il meglio da un pezzo. La notte porta consiglio, fa riposare i pensieri. Trasforma gli errori e fa vedere meglio le cose. Avevo iniziato a scrivere questo post con l’intento di raccontare le mie tragicomiche peripezie da giornalista. E in parte è ancora così. Con qualche piccola modifica però. Perché se avessi voluto parlarti della miriade di torti subiti nei lunghi anni di onorata carriera, lo avrei fatto in pochi minuti.
Mi sarei probabilmente beccata una querela dai miei ex datori di lavoro e la cosa sarebbe finita lì. Con l’ennesimo atto d’accusa verso un mondo, quello del giornalismo, che non riesce più a valorizzare i suoi “figli”. Che spinge valenti cronisti a spaccarsi la schiena per un guadagno che viene puntualmente dimezzato. O che relega professionisti impareggiabili in palcoscenici di terz’ordine. Mentre ragazzini vogliosi di vedere la propria firma su un giornale o su un sito accettano di scrivere un articolo per 3 euro.
E se il problema fossi io?
Certo, è così, e magari un giorno te lo spiegherò più approfonditamente. Il punto però è un altro. Il punto è che negli anni vedi tante di quelle brutture che ad un certo punto dubiti della tua stessa identità professionale. Pensi di essere quella sbagliata. Di non avere stoffa e di non essere abbastanza flessibile e motivata o sufficientemente preparata. E di non avere faccia tosta. Quell’encomiabile resistenza di tanti colleghi che tengono in piedi 45 collaborazioni per avere un quarto di stipendio.
Ti dici che tu sei tu indipendentemente da quello che fai. Ed è una verità assoluta. Allora vuoi mollare tutto e cerchi di aprire un chiosco di biscotti speziati alle Maldive. Il pensiero in sé funziona. Sì, va bene ma poi…
Tutto il resto è l’animaccia vostra e di chi non ve lo dice con la mano alzata. Quando è cambiato tutto nel mondo del giornalismo? Non lo so. So che fino a 10 anni fa la mia era una professione diversa. Oggi è stritolata da mille ingerenze. E ci si guarda in cagnesco tutti.
Parli con parenti e amici, tutti assunti con regolare contratto, e ti guardano come se fossi un muflone albino. Proprio non capiscono come sia possibile non avere un posto fisso. Ora te lo spiego.
E se il problema fossero loro?
Ho mandato curricula con lettere di accompagnamento appassionate (ti giuro, mi sarei assunta da sola), spedendo decine di file audio. Non sono mai stata brava a vendermi, ma una cosa la so: la mia voce non lascia indifferenti. Eppure sono arrivate risposte cortesi, ma negative. E sto ancora aspettando di fissare un appuntamento che mi era stato promesso a giugno. Giugno. Non riesco nemmeno ad essere arrabbiata.
Ho scritto senza timidezza, da pari a pari, a giornalisti che hanno detto senza giri di parole di non chiedergli aiuto (“Non riesco a trovare un posto a mia nipote, figurati“). Immancabile poi l’invio di articoli di prova, corredati da meme fatti da me in persona.
Perché oggi una giornalista deve pure essere spiritosa, scrivere per piacere a Google, riprendersi con lo smartphone e il selfie stick mentre cammina su una gamba sola durante una manifestazione di piazza.
A settembre ho sostenuto un colloquio per un “lavoro di redazione per una nota radio”. In realtà la redazione era un call center in cui gli impiegati reclutavano ospiti in maniera del tutto casuale. Quando ringraziandoli gli dissi che non era per me, mi hanno guardata atterriti.
A gennaio saranno passati 18 anni dalla mia prima diretta in radio. Un compleanno che celebro sempre con soddisfazione, perché quel giorno ero davvero soddisfatta di me, del mio coraggio. Della mia sfacciataggine e della mia bravura. Ero impacciata, imperfetta, ma quanto mi piacevo! Che dici, facciamo in modo che Smack! si possa anche ascoltare? Giusto per non perdere l’abitudine.
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Susanna cerca di ricordare cosa ti dicevo io della professione di Giornalista circa 10 anni fa quando eravamo colleghi di lavoro!!