Non so perché mi sia sfuggito il trentennale dell’uscita di Full Metal Jacket. Eppure per lungo tempo è stato il film della mia vita, diretto dal regista che reputo il più grande in assoluto, Stanley Kubrick.
Lo vidi per la prima volta parecchio tempo dopo l’uscita in sala. Mi ero da poco iscritta a Lettere e Filosofia ed ero una studentessa vorace, affamata. Lo trasmisero in prima serata su Canale 5, in versione censurata (non si vedeva il suicidio di Palla di Lardo), tra decine di polemiche e battibecchi.
Tutti dissero la loro, associazioni di genitori, giornalisti, attori, registi, Maurizio Costanzo, Enrico Mentana… Uno strazio.
Al termine del film dissi fra me, o faccio la tesi su questo o non mi laureo. Il mio professore, buon per lui, approvò il progetto e mi permise di fare il lavoro più bello fatto nella mia carriera di studentessa.
Spulciavo tutte le librerie di Roma, anche nei reparti di cucina, a caccia del volume giusto. Della frase perfetta. Della sintesi illuminante.
Passavo dal Giornale di guerra e prigionia di Carlo Emilio Gadda fino al Tractatus di Ludwig Wittgenstein. Dai quadri di George Grosz ai libri di Lewis Carroll. Tutto sarebbe servito a dimostrare appunto la mia tesi. Ovvero che Full Metal Jacket era un film che aveva messo la parola fine al genere bellico. Stop, fine. Nero, titoli di coda.
Full Metal Jacket a Piramide
Iniziai a scrivere sulla macchina da scrivere di mio fratello (?!?!!). Era un sabato pomeriggio, c’era un anticipo di campionato e mi chiusi in bagno per essere più concentrata. Il rumore dei tasti però era assordante. Altro che concentrazione.
Commossi da tanta abnegazione i miei mi regalarono un PC, uno scassone terrificante. Su cui però lavoravo giorno e notte. Con un modem a 56k. Poteva forse spaventarmi la storia di Joker e della sua discesa agli inferi? Del povero Gomer Pyle e di Cow Boy? No.
Insomma un pezzo enorme della mia vita ieri è tornato alla luce. E leggendo alcuni articoli interessanti sulla ricorrenza, mi sono sentita chiamata in causa. Full Metal Jacket resta un capolavoro, ma non riesco più a guardarlo con lo stesso amore di prima.
Come eravamo
Da giovincella ero affascinata dalla costruzione impareggiabile delle inquadrature da parte di Kubrick.
Pensa, usò una vecchia centrale del gas dismessa nel Sussex per poter far saltare i palazzi come desiderava e copiare così le rovine del Vietnam.
Quella non era una scenografia ricostruita in studio, né un set nel vero Sud-est asiatico come in Apocalypse Now. Era l’Inghilterra. Ed era credibile.
Un gesto di totale narcisismo registico che solo un dio della celluloide poteva concepire. Assieme ad altri geniali momenti del film. Su tutti, il mio preferito in assoluto: l’arrivo di una troupe televisiva sul campo di battaglia di Huế.
Davanti alla telecamera i soldati si mettevano in posa, declamando battute assurde. Mentre alle loro spalle si combatteva.
Lo sguardo del regista. Poi quello dei reporter. Guerra rappresentata e guerra “vera”. In mezzo, un mucchio di ragazzotti non proprio maturi, con il loro desiderio di vivere.
Gran finale
Mancano le donne in Full Metal Jacket. O meglio, le uniche reali sono la prostituta malandata e la ragazzina cecchino. Le altre, Ann Margaret con le gocce di rugiada, Mary Jane (il suo appellativo non lo posso scrivere), le madri dei soldati, sono tutte immaginate o evocate. Ma assenti.
Non riesco più a guardarlo con lo stesso amore di prima, dicevo. Ripenso con orgoglio alla fatica fatta per scrivere quelle pagine, alla quantità enorme di fesserie teorizzate (oggi ci rido su, ma all’epoca ero convintissima).
Più di tutto però vince l’amarezza di non essermi goduta quella grande impresa. Ero troppo presa a sembrare la più intelligente donna del mondo per capire che ero solo una ragazza in gamba, ma con tanta strada da fare ancora per essere davvero realizzata.
Ma anche se non sono più la Francesca di 17 anni fa (e l’ho messo nero su bianco qui), appena sento Surfin’ Bird inizio a cantare. Solo che certe volte è meglio abbandonare la guerra. E allora, Hello Vietnam!
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