Ho giurato solennemente al regista di Blade Runner 2049, Denis Villeneuve, di non spifferare troppo sul suo film e manterrò la parola. Però qualcosa te la voglio dire: per me è bellissimo.
Non ho mai apprezzato la fantascienza. E questo ha provocato lunghe discussioni con amici e parenti.
Non mi esaltano né i giocattoloni pieni di effetti speciali (vabbè un po’ sì) né i racconti filosofici. Cosa cerco? Una storia lineare. Dei personaggi a tutto tondo. Delle crisi che portino ad una scoperta nuova.
Davanti ad un’opera sci-fi insomma devo potermi aggrappare a qualcosa di umano per appassionarmi. E in Blade Runner 2049 l’ho trovato.
È nascosto in mezzo agli scenari maestosi di una Los Angeles apocalittica. Negli ologrammi che sono reali ma non veri. In una costante ricerca di qualcosa che pare incomprensibile, eppure c’è.
La trama
Los Angeles, trent’anni dopo gli eventi del primo film. Durante una missione, un nuovo blade runner, l’Agente K apprende un segreto che potrebbe infrangere il delicato equilibrio che si è instaurato tra uomini e androidi di nuova generazione. La scoperta lo spinge verso Rick Deckard, da tempo sparito nel nulla.
Blade Runner 2049, il futuro oggi
Oggi un film come questo non può avere lo stesso impatto che ebbe il cult di Ridley Scott sul pubblico di allora. Ed è giusto che sia così.
In trent’anni è cambiata totalmente la rappresentazione del futuro al cinema (e in televisione). Il racconto distopico, ovvero ambientato in un’epoca immaginaria, è diventato norma. E non meraviglia più.
Il sequel di Villeneuve dunque nasce già sapendo di non poter sorprendere. Secondo me è la condizione ideale per conquistare uno spettatore.
Il regista canadese prende l’immaginario creato da Philip K. Dick e superbamente rappresentato da Scott nel 1982 e lo trasforma in qualcosa che sia comprensibile da tutti ora. E in questo presente caotico, pieno di muri e guerre, l’unica cosa che ha valore è sentire l’altro.
“Tu sei speciale“
Questi androidi che sono più umani degli umani, che peccano di superbia e altruismo sono emozionanti.
Saranno anche programmati, ma l’incapacità di spiegare quei “sentimenti” così strani li rende ancora più sorprendenti.
Ryan Gosling, con quell’aria spaesata, è convincente nei panni di K. Harrison Ford è Harrison Ford (qui li ho fatti scontrare per gioco).
Se in qualcosa cade il film è in una sceneggiatura non pienamente coerente. L’opposizione bene-male non è mai netta, è vero, ma il cattivo Neander Wallace (Jared Leto) resta una figura sospesa. Poco incisiva.
Il cuore del film di Villeneuve quindi è l’essere umano. O meglio, il desiderio assoluto di essere esseri umani. E dove si gioca questa guerra alla ricerca della propria identità se non nel pensiero?
In quel carosello di immagini che vediamo quando si chiudono gli occhi. È memoria vissuta e ricreata o sono solo ricordi innestati?
Devi vedere il film. Ma la risposta vale le oltre due ore di visione.
Non dimenticarti di seguire Smack! – Blogzine per donne croniche su Facebook. Metti mi piace alla nostra pagina!
Lascia un commento