Febbre. Stato patologico momentaneo. Aumento della temperatura corporea al di sopra dei valori normali. Segno clinico. Non sembrano delle definizioni rassicuranti queste, è vero. Eppure la febbre di cui parla Giacomo Durzi nel suo documentario, Ferrante Fever, è un sentimento positivo, una frenesia inarrestabile. Ed è tutto racchiuso in quella parola: Ferrante.
In sala per tre giorni, il 2, 3 e 4 ottobre, prodotto da Malìa e Rai Cinema e distribuito da QMI Stardust, Ferrante Fever prova a raccontare un fenomeno culturale di rara potenza.
Elena Ferrante è la scrittrice italiana di maggior successo al mondo. Con la tetralogia de L’amica geniale ha conquistato il mondo, ottenendo larga considerazione soprattutto negli Stati Uniti, dove migliaia di lettori innamorati (Hillary Clinton in testa) le hanno tributato grandi onori.
Sono otto i romanzi scritti finora dalla Ferrante, due dei quali, L’amore molesto e I giorni dell’abbandono, già portati sul grande schermo da Mario Martone e Roberto Faenza, ospiti del documentario di Giacomo Durzi.
L’amica geniale invece diventerà una serie televisiva diretta da Saverio Costanzo.
La storia di Lila e Lenù, due bambine legate da un rapporto viscerale, dal Dopoguerra ad oggi, ha forse bisogno di più “spazio” per essere narrata in maniera appropriata.
Protetta da un anonimato ferreo, invincibile, Elena Ferrante è l’amato oggetto di studio del regista. Romano, classe 1976, Giacomo Durzi si è addentrato in questo mondo affascinante come un esploratore. Avvalendosi di ospiti di rilievo come gli scrittori Elizabeth Strout e Jonathan Franzen.
Ora che il documentario è pronto, quanto è stato difficile realizzarlo?
È stata una sfida molto faticosa, perché ho tentato di raccontare qualcosa che non vuole essere raccontato. All’inizio non avevo chiaro cosa volessi fare. Ero incuriosito, rapito, ipnotizzato dalla lettura dei libri della Ferrante. Alla fine del quarto volume della tetralogia dell’Amica geniale questa idea ha iniziato a frullarmi in testa, insinuandosi come una domanda.
Cosa ti sei chiesto?
Mi sono chiesto come sia possibile creare un’opera narrativa che è in grado di stringere un patto così potente col lettore. Adesso, poi, in cui la lettura è sotto attacco. Io stesso ad esempio leggo meno, vedo migliaia di serie che sottraggono tempo alla lettura. Com’è possibile, dicevo, generare quella forma di dipendenza, di addiction. Poi mi sono chiesto come un lettore dell’Arkansas o una lettrice di Seul siano affascinati da una storia femminile di due ragazzine che crescono in un povero rione di Napoli nel secondo Dopoguerra.
Come fa Elena Ferrante a incantare i lettori?
Credo che sia l’intelligenza delle soluzioni narrative, l’uso delle strategie narrative, anche quelle più popolari. Alla base di tutto però c’è una forte indagine psicologica sul mondo femminile che mai c’era stata e che è riuscita a rendere universale. Elena Ferrante ha dato un nome, in termini di prosa, a cose a cui nessuno prima aveva dato un nome, penso alla smarginatura, alla frantumaglia.
Questa autenticità di sguardo sulla donna incuriosisce le donne, perché si vedono rappresentate in tutto ciò che sono le difficoltà della loro vita. Specialmente in un momento particolare come questo in cui la condizione femminile è tornata ad essere un argomento forte di discussione in tutto il mondo. E per un lettore come me, poi, può essere una maniglia per entrare in un mondo che non avevo mai potuto sperimentare.
Giacomo Durzi e il mistero Ferrante
Elena Ferrante è anche un mistero. Ti è passata per la testa l’idea di risolvere il giallo della sua identità?
All’inizio ero solleticato dalla curiosità, ma c’ho riflettuto solo per un secondo e ho subito, con la co-sceneggiatrice Laura Buffoni, abbiamo abbandonato questa intenzione. Non è necessario avere informazioni, non aggiunge nulla sull’autore. È tutto lì, nelle opere. Il fascino che la Ferrante ha esercitato su di me ha avuto a che fare con la sua scomparsa, ma è stato solo un innesco, nulla di più.
Hai scelto con grande cura le persone da intervistare. Questa ricerca è stata parte integrante del tuo lavoro?
Non volevo riempire il film di facce note, ogni personalità doveva avere un ruolo. Doveva essere uno strumento di costruzione del racconto per restituire quello che avevo in testa. In America ho fatto la scelta precisa di raccogliere esperienze di lettori qualificati come Jonathan Franzen ed Elizabeth Strout. Per l’Italia alcune decisioni sono arrivate in maniera naturale, e mi riferisco a Mario Martone e Roberto Faenza che hanno adattato per il cinema i libri della Ferrante. Di sicuro, non è stato facile trovare da noi chi fosse disposto a misurarsi con la Ferrante.
Non le si perdona il successo ottenuto?
Esatto. In America è più facile sentire un collega che parla di un suo collega in termini entusiastici. Anche se non sarebbe tenuto a farlo.
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